Perché le cose succedono? Accadono per merito o colpa nostra? Oppure la vita ce le sfila silenziosamente di mano per spingerle su binari tutti suoi, che obbediscono a logiche misteriose? E’ dall’esigenza di dare una risposta a questa domanda che nasce Marko Polo, il nuovo lavoro della regista Elisa Fuksas: un docufilm sperimentale, ironico, sorprendente, strampalato, “comico e drammatico”, che la vede impegnata come protagonista nei panni di una possibile, altra se stessa. E che, prodotto da Indiana Production, è stato presentato alla 19ma Festa del cinema di Roma nella sezione Free Style, mentre sarà distribuito da Fandango.
Il genere di storia raccontata da Marko Polo è quello classico del film nel film. Elisa è una regista che deve rinunciare alla realizzazione di un’opera a cui lavora da tempo. I finanziatori si tirano indietro e lei è costretta a confrontarsi con il “luttuoso” addio al suo progetto. Il motore della trama è il fallimento e insieme il bisogno di spiegarne l’origine. “Perché il film non è stato fatto?”, si domanda continuamente. Dal fallimento nasce una crisi. Anzi, due. Alla crisi professionale si sovrappone quella religiosa. La regista, che a 37 anni ha deciso di battezzarsi, si rende conto di non essere poi così tanto sicura nemmeno della propria fede. Come spesso accade, la soluzione – o almeno la speranza di trovarne una – viene affidata allo spazio.
Elisa s’imbarca sul traghetto Ancona-Spalato con l’intenzione di raggiungere poi il santuario di Medjugorje. Ad accompagnarla ci sono vari personaggi, tutti rigorosamente inseguiti da una loro crisi. La sceneggiatrice chiusa in un suo mutismo perché deve riflettere; la sorella Lavinia, mossa dalla speranza che un pellegrinaggio religioso possa concederle il miracolo di smettere di fumare; un attore che, nel tentativo di liberarsi dell’ostacolo artistico rappresentato dal Sé, cela il volto dietro un enorme e surreale maschera bianca. Il bilancio di Elisa sul lavoro e la fede diventano l’occasione per una serie di brillanti riflessioni.
Su tutti e tutto si proietta il dubbio, ironico e insieme drammatico, di essere fuori posto. L’inverno è il momento sbagliato per mettersi per mare. Una nave non è il teatro più adatto a una crisi religiosa. Né è credibile la Madonna (una spassosa Iaia Forte) che, dopo essere annunciata come acufene e voce interna, si manifesta a Elisa in nave: troppo verace, troppo barocca. La salvezza, tuttavia, arriverà proprio dall’insieme caotico e apparentemente casuale di queste circostanze, che le offriranno l’opportunità di fare un nuovo film. E dunque una resurrezione non attraverso la religione ma attraverso il cinema e il rapporto con i compagni di viaggio.
E il “Marko Polo” del titolo? E’ il nome della nave che Elisa e gli altri intendevano prendere ma poi non hanno preso, perché il traghetto su cui viaggiano verso Spalato si chiama “Zara”. Ed quindi la metafora di un equivoco, il risultato di quella misteriosa eterogenesi dei fini di cui, sembra suggerire la regista, è intrisa la vita. E con la vita il cinema.
“In Marko Polo esploro il fallimento – spiega la regista – In una società come la nostra siamo costretti ad avere successo e non possiamo oscillare nei nostri risultati. Appena viene meno uno standard veniamo dimenticati. Questo film ti ricorda che c’è un’alternanza tra successo e fallimento. È un film che si è costruito nel tempo, per accumulo di questioni e vita, che nasce dalla realtà e però se ne libera chiedendo alla sua rappresentazione di dare dignità ed ‘eternità’ a un momento che verrebbe altrimenti dimenticato, anzi rimosso: quello, appunto, del fallimento. Che poi fallire non è il contrario di succedere, mentre fallimento e successo li usiamo sempre come contrari. Ma è anche un film sulla fede: non solo in Dio ma nel mondo, nell’altro e in quello che possiamo fare in questa piccola parentesi che si chiama vita”, conclude.
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