Elio Germano: il mio biopic del pittore naïf Ligabue

L’attore è l’ospite d'onore di Molisecinema che gli dedica, oltre a una rassegna di film, il libro “Elio Germano. Corpo, voce e istinto”, a cura di Raffaele Meale e Federico Pommier Vincelli


Elio Germano, l’attore romano di origine molisana, è l’ospite d’onore del festival Molisecinema che gli dedica, oltre a una rassegna di film, il libro “Elio Germano. Corpo, voce e istinto”, a cura di Raffaele Meale e Federico Pommier Vincelli, pubblicato da Cosmo Iannone Editore. Il volume, che inaugura la collana editoriale di MoliseCinema, viene presentato a Casacalenda (Campobasso) oggi 8 agosto alle ore 19.30, presente Germano. Dal volume pubblichiamo di seguito stralci dell’intervista all’attore realizzata da Raffaele Meale a fine giugno sul set di Volevo nascondermi, il film  di Giorgio Diritti sulla vita del pittore emiliano Antonio Ligabue.

Partiamo da una curiosità legata al set su cui stai lavorando in questi giorni. L’altro Antonio Ligabue visto sugli schermi è quello dello sceneggiato diretto da Salvatore Nocita nel 1977, dove era interpretato da Flavio Bucci. Anche Bucci, e qui sta la curiosità, è di origine molisana…

Eh, ma questa la sapevo! In realtà lo sceneggiato non l’ho ancora visto, conto di farlo più in là. So che fu un evento televisivo con cui si confrontò un’intera generazione, colpì molto l’immaginario dei ragazzi dell’epoca. Forse fu perfino uno choc per i più giovani, visto com’era la televisione allora. Anche per questo ho scelto comunque di non vederla, anche per non essere influenzato in nessun modo. Una volta visto qualcosa non puoi tornare indietro, non puoi decidere di non farti influenzare. Lo sceneggiato di Nocita fu così d’impatto che si è attaccato alla memoria delle persone, e me ne sono accorto facendo delle interviste qui alla gente del posto nella preparazione del film. Molti, e me l’ha confermato anche Giorgio Diritti, li citavano come veri aneddoti della vita di Ligabue, ma in realtà li riprendevano dallo sceneggiato. Sono molto curioso di recuperarlo, anche perché Flavio Bucci è un grandissimo attore, per me indimenticabile ne La proprietà non è più un furto di Elio Petri, dove interpreta questo personaggio schizzinoso che tocca tutto con i guanti, anche i soldi che crede gli facciano venire delle malattie (…)

La tua interpretazione di Ligabue si inserisce in un percorso che con sempre maggiore frequenza si sta muovendo anche nel campo del film biografico.

Questa è una cosa che mi fa anche ridere molto, ed è ovviamente frutto delle produzioni. Da un cinema libero, costruito attorno agli autori, com’era quello italiano un tempo, si è passati dapprima a fare delle cose con dei grandi nomi, quindi a fare delle cose che facessero ridere, e poi a trarre dei film da successi commerciali di vario tipo, un libro o un fumetto per esempio. Ora, con i soldi reali che sono sempre meno, ci si lancia sui “personaggi”. Non ci deve essere nessuna remora e nessuna vergogna a dirlo, si tratta di un traino disperato dei produttori per cercare di riportare qualcuno in sala. Insomma, non è solo una scelta mia, ma è più un indirizzo generale. Ma la cosa mi fa ridere perché io cresco con dei modelli interpretativi che erano Tomas Milian o anche Oliviero Noschese, o Corrado Guzzanti; attori che facevano della maschera il punto di partenza e di arrivo del loro mestiere. Noi tutti poi veniamo da quel modello lì, dal concetto di maschera e dall’idea di renderla in scena. Io sono partito da lì e poi mi sono aperto a un altro percorso, che cerca di scavare maggiormente in profondità per immergersi nel mistero della vita. Invece di andare a riprodurre una cosa che già conosco prima preferisco arrivare con un bagaglio in una zona in cui non so cosa accadrà. Un meccanismo quasi opposto a quello con cui mi sono formato ma che mantiene l’ossessione per la preparazione. In qualche modo cerco la perdita del controllo, l’uccisione di quel demone che è il “guardarsi da fuori”. Io credo molto nel concetto di “interpretare”, e non in quello di “recitare”, e l’interpretazione va contro l’idea di controllo totale, di gestione della voce, di riproduzione di qualcosa che si è già pensato (…)

Ti rivedi nei film?

Scherzi? Non mi rivedo mai.

Qual è il tipo di rapporto che cerchi di instaurare con un regista?

Tipo cameriere. Io sono al servizio. Cerco di capire di cosa il regista ha bisogno, qual è la sua idea, e di arrivare il più preparato possibile. Noi siamo gli ingredienti del piatto che cucina il regista, o se preferisci l’inchiostro del libro che scrive il regista. Ovviamente è il mio corpo e la mia voce, e quindi è la mia interpretazione all’interno del mondo che sta costruendo il regista. Ma non mi metto mai a dire che io la scena la voglio fare in un altro modo.

Non ti è mai capitato?

Ci sono discussioni anche molto serie, anche su questo film, che riguardano il fatto di sentire o non sentire una cosa, o un’azione. Ma se il regista dice che devo farlo io mi adeguo. E ne sono felice. Il piacere di essere al servizio è secondo me una cosa molto alta. Ovviamente devi partire da una stima, o al massimo scegli di fare tutto il lavoro senza coinvolgimento emotivo alcuno. C’è il mio bagaglio, ed è al servizio del regista e della storia. Non partire mai da un’idea preconcetta di quello che devo o non devo fare mi sembra l’attitudine più coerente (…)

Ti consideri cinefilo, vai al cinema?

Ultimamente sono diventato un grande fan del cinema indiano, ma purtroppo sono film che posso vedere solo a casa visto che da noi nessuno li distribuisce. Poi detesto il doppiaggio, e i cinema nella capitale d’Italia che danno i film in lingua originale sono uno o due e sono tutti al centro di Roma, quindi sono un po’ tagliato fuori. Mi sono comprato una televisione molto grande e purtroppo i film li vedo lì. Un altro grande problema è che la gente in sala non tace più, guarda il cellulare, illumina la sala. Non lo tollero più, mi spiace.

Hai citato più volte il cinema dell’est Europa, in particolare la Romania. Una nazione che è molto più vicina all’Italia di quanto si possa supporre…

Hai aperto una questione enorme. Noi siamo stati in tutta evidenza colonizzati dagli Stati Uniti d’America. Uno dei motivi per cui il cinema si doppia ancora è perché fu così stabilito dal Piano Marshall. Siamo ancora costretti ad avere basi militari sul nostro territorio, e siamo una colonia anche a livello economico. Diffondiamo sia attraverso la cultura che attraverso la controcultura un pensiero “americano”. Siamo allevati con dei modelli d’oltreoceano, o comunque d’oltremanica, e non sappiamo nulla della letteratura, della musica, della danza, della pittura di persone come noi! La Grecia, l’Albania, la Spagna, la Romania, sono i nostri diretti fratelli, e li ignoriamo quasi completamente. Lo trovo scandaloso. Ma ti dirò di più, io trovo l’Italia nei film indiani! Le questioni sollevate sono le nostre.

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08 Agosto 2018

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