BERLINO – Ecologico e sostenibile. È In grazia di Dio, il nuovo film di Edoardo Winspeare (Sangue vivo, Galantuomini) a Berlino in Panorama e in sala dal 27 marzo con Good Films. Girato a Giuliano di Lecce, un paesino di 450 abitanti, è tutto realizzato a km zero con maestranze e attori del luogo e con scambi di doni e di cibo. Tutto così semplice da risultare incantevole. “Avremmo potuto essere in concorso – rivela il regista salentino – perché il film è sembrato molto autentico, ma ci hanno detto che è un po’ troppo carino”. Qualcuno potrebbe dire buonista.
Eppure non è una favola la storia di Adele, di sua sorella Maria Concetta, di sua mamma Salvatrice e di sua figlia Ina, un’intera famiglia di donne messa in ginocchio dalla crisi e dalle cartelle di Equitalia ma capace di rimettersi in piedi grazie alla solidarietà della comunità. “C’è molto di vero in questa vicenda”, ci racconta Winspeare. Attorniato dalle sue attrici, tutte non professioniste, tra cui sua moglie Celeste Casciaro, con la figlia Laura Licchetta, Anna Boccadamo, cuoca e moglie di un pescatore, e Barbara De Matteis, l’unica con esperienza di recitazione (ha lavorato con Ozpetek anche nel nuovo Allacciate le cinture, pur essendo una barista).
E poi Gustavo Caputo, un avvocato che qui ha il doppio ruolo di produttore e interprete nel ruolo di un agente del fisco dal cuore gentile, e l’altro produttore Alessandro Contessa. A Berlino sono arrivati in 122 persone, tutti parenti. E c’è anche, in forma privata, il ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, che ha voluto essere accanto all’amico Winspeare. Costato 600mila euro, prodotto da Saietta Film con Rai Cinema e con la Banca Popolare Pugliese, l’Apulia Film Commission, l’Assessorato alle Politiche Agricole, In grazia di Dio (titolo internazionale Quiet bliss) ha molti sponsor che hanno contribuito chi con denaro (la Pasta Granoro), chi con regali di vario tipo. C’è persino un dentista che si offriva di fare otturazioni gratuite a chi collaborava con la troupe.
Quindi è tutto vero?
È una storia inventata, ma mi sono ispirato alle vicende del fratello di Celeste, mio cognato, un fasonista, come si chiamano dalle nostre parti coloro che lavorano a cottimo per la sartoria fornendo ditte come Prada, Stefanel o Benetton. Adesso per loro è un momento molto difficile con la concorrenza dei cinesi e le tasse. Ma due anni fa anch’io ho avuto un momento complicato e il fatto di aiutarci a vicenda, di scambiarci favori ci ha permesso di risalire la china.
Anche usando il baratto, come si vede nel film?
Viviamo in una comunità molto unita. Io ad esempio davo lezioni di cinema nelle scuole, ho fatto lo spot del carnevale di Corsano gratis ma in cambio di altri aiuti. La crisi è una cosa bruttissima, ma è anche una possibilità per reinventarsi un’altra economia e scoprire le cose davvero importanti della vita: il senso della comunità, la famiglia.
Quella del film è una famiglia matriarcale e sono due donne, Adele e la madre Salvatrice, a mandare avanti la baracca.
Nel Sud le donne sono più solide, mentre ci sono un sacco di uomini che stanno al bar a chiacchierare e magari a vantarsi di cose impossibili: “Se fosse stato per me, avrei giocato nella Juventus”.
Come ha costruito i quattro personaggi femminili, così diversi tra loro e spesso in aperto conflitto?
Volevo raccontare quattro tipologie diverse di donne che attraverso tutte le vicissitudini del film riescono a ritrovare un inizio di armonia. La vecchia generazione si affida all’elemento religioso, alla preghiera e al rito, Celeste è agnostica ma è animata da un fortissimo senso di responsabilità, la sorella minore è l’artista di famiglia, è stata a Lecce a studiare e sogna di fare l’attrice. La figlia Ina infine è una consumista da terzo mondo che riempie il suo vuoto affettivo vivendo alla giornata.
Lei nel film cita Kierkegaard e i tre stadi della vita: estetica, etica e religiosa. La scelta religiosa sembra essere quella più felice perché alimenta la fede, la fiducia nell’esistenza.
In qualche modo o uno crede in Dio o crede nella vita. Io sono credente sei giorni a settimana, diciamo che scommetto sull’esistenza di Dio. Dalle nostre parti quasi tutti vanno a messa la domenica, anche se magari non ci credono. È un modo per stare insieme agli altri. Io sono cresciuto a Depressa, un piccolo paese, dove il sacerdote ogni volta che mi incontrava mi chiedeva: chi è Dio? Mentre mia madre, che era austroungarica, ci teneva che avessi un’educazione razionale.
Possiamo definire “In grazia di Dio” un film a km zero.
In un certo senso sì. Gli attori sono tutti della zona, eccetto la ‘straniera’ di Lecce. Non abbiamo usato bottiglie di plastica. Ci siamo mossi in bicicletta. Abbiamo dormito nel luogo delle riprese. Tutto ciò che restava dopo i pasti, veniva regalato agli allevatori di animali. Soprattutto c’era rispetto per il territorio e la gente, cosa che spesso con il cinema non accade. Quando non avevamo abbastanza soldi per pagare, abbiamo dato dei pacchi di vino, caffè e sottaceti. L’ufficio della produzione, preso in prestito dal parroco, sembrava una succursale della Caritas.
Lei ha un fortissimo radicamento nel territorio.
Faccio un cinema locale, usando il dialetto, con l’ambizione che sia universale. Anche William Faulkner parlava di contadini.
Lei è già stato a Berlino nel ’96 con “Pizzicata”. Come le sembra la collocazione a Panorama?
Non avremmo mai pensato di andare a Berlino quando giravamo, poi invece è piaciuto, è stato persino in ballo per il concorso. Ma mi hanno detto che per il concorso era un po’ troppo carino e ottimista. Io non volevo épater les bourgeois. Comunque Panorama è più rilassante. Adesso ci sono due distribuzioni italiane che se lo stanno contendendo e dall’EFM sono già arrivate un paio di offerte per l’estero.
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