VENEZIA – Nel Comune di Castel Volturno in provincia di Caserta nessuno è uguale a nessun altro, e la ‘normalità’ è un concetto astratto, una chimera che non ci si può permettere di raggiungere. ‘Le persone normali muoiono di fame’. E’ il refugium peccatorum per chi fugge da fallimenti sentimentali ed economici, per spacciatori, prostitute, gente che deve inventarsi un mestiere e che espone ferite profonde del corpo e dell’anima. E’ Via Del Campo, è il freak-show di Tod Browning, la Wasteland di Mad Max, la Midian di Cabal. Qui vivono Viola e Dasy, due bellissime gemelle siamesi, appena maggiorenni, che cantano ai matrimoni e alle feste e, grazie alle loro esibizioni, danno da vivere a tutta la famiglia. Loro padre scrive le canzoni, le ama e le sfrutta. In questo mondo senza regole precise una cosa non esclude l’altra. Le due ragazze, e la loro peculiarità, che le rende oggetto di interesse della comunità – interesse erotico, economico, ma anche religioso, superstizioso e rituale. Emblematica la scena in cui vengono portate in processione, con le mani sanguinanti, come due icone sacre o quella in cui una signora anziana chiede di poter toccare la loro ‘connessione’, convinta che porti bene – sono il suo bene più prezioso. Ma un giorno, dopo un colloquio con un medico (Peppe Servillo) le due scoprono di potersi dividere.
“Tutt’eguale song ‘e criature/nisciuno è figlio de nisciuno/tutt nati dall’ammore/se sape come si nasce/ma nun se sape comme se more”, commenta la colonna sonora di Enzo Avitabile, con un ritmo rarefatto che segue anche l’andamento del film, fino a un finale spiazzante e sospeso come una nota in levare, che lascia aperte tante questioni, e anche una ferita.
E’ uno dei film più importanti e attesi delle Giornate degli Autori, Indivisibili di Edoardo De Angelis, ottimamente accolto dalla critica, tanto che ci si chiede perché non sia stato inserito in concorso. “Sono contento dove sto – commenta il regista – quando si arriva a un Festival come questo si pensa a quello che si può dare, più che a quello che si può prendere. Le Giornate hanno amato il film e so che le reazioni sono state positive. Se il film resta impresso, quella è la collocazione ideale”.
Qual è, secondo lei, il tema principale della pellicola?
E’ un film sulla separazione e sul dolore che comporta. A volte, per crescere, bisogna farsi del male, rinunciare a un pezzo di se stessi. Ho cercato un’immagine che rappresentasse al meglio questo concetto.
Uno dei più grandi punti di forza del film è l’ambientazione. Come si è mosso in quella realtà?
“E’ una realtà in continuo divenire, senza controllo da parte della legge. Un luogo in cui tutto è permesso, non ci sono piani regolatori, tutto è abusivo e niente lo è. Eppure, non si smette mai di ricostruire. Sono stato molto aiutato dalla giunta, un gruppo di assessori giovani e volenterosi, comunisti sfegatati. Hanno capito che il mio è un modo di rappresentare il luogo con amore. E’ un luogo, anche lui, pieno di dolore, e di cicatrici. Ma non dire le cose, non cambia le cose. Chi abita da quelle parti, resta attaccato a quella terra. Anche lì, c’è un legame indivisibile. Certo, hanno il nervo scoperto. All’inizio, durante il periodo delle prime interviste e dei primi sopralluoghi, erano un po’ sospettosi. Ma è un luogo che fa parte anche di me, in bilico tra bellezza e orrore. E’ così che anch’io vedo la vita e spesso lo frequento. Vado ancora a cena la sera lì, a guardare la Darsena abbandonata. Mi piace.
E poi ci sono le gemelle, Angela e Marianna Fontana. Che non sono siamesi ma lo sembrano davvero…
Non amo gli effetti digitali, per cui coi i ragazzi di Makinarium abbiamo creato delle protesi che sembrassero pelle vera, anche al tatto. Devo crederci io per primo. Prima che il lavoro degli effettisti fosse pronto, comunque, per tre mesi abbiamo provato, le legavo insieme con le corde o con le buste di plastica, camminavano, correvano e nuotavano insieme. Vivevano cosi. Volevo che anche l’implicazione favolistica risultasse naturale. La prima sfida è stata trovarle. La seconda renderle siamesi. Sono state come due soldati, era un ruolo faticoso, anche per le ore di trucco che richiedeva. Psicologicamente siamo stati aiutati dal fatto che loro, da gemelle, vivono in effetti in simbiosi. Hanno una biografia limitrofa a quella dei personaggi. Sono veramente due cantanti e da poco avevano cominciato a studiare recitazione. Da questo punto di vista abbiamo dovuto eliminare certi automatismi tipici di chi impara a cantare ascoltando le cantanti famose, le classiche cose imparate male. La prima cosa che ho fatto è stato togliere di bocca loro l’italiano.
In effetti, il linguaggio del film è molto particolare e in alcuni casi incomprensibile senza sottotitoli.
E’ il linguaggio di quella terra, mi creda se le dico che non lo capiscono nemmeno i napoletani. Ma era quello che volevo. Dovevano parlare una lingua misteriosa, comprensibile solo a loro. Anche per questo le ho circondate invece di attori che parlavano napoletano. In una scena Dasy grida: “non voglio stare con un bastardo. Voglio un ragazzo normale”.
Cos’è la normalità, oggi?
La situazione del film è paradossale perché Viola e Dasy, al contrario delle ragazze della loro età, vogliono fuggire dalle luci della ribalta, dai riflettori. Quelli ce li hanno sempre avuti puntati addosso. La loro menomazione per loro è un limite, ma per gli altri è esaltante e tendono a sfruttarla. Sono stanche di tutto questo. La normalità per loro è il sogno da realizzare: poter mangiare un gelato senza che l’altra si senta male, potersi ubriacare senza che l’altra perda i sensi. Poter fare l’amore.
Parliamo invece del linguaggio rituale, del mondo magico, della superstizione e della sacralità…
In quelle zone esiste ed è molto viva. Non è mai stata abbandonata, i culti si mescolano tra loro. Ci sono settanta chiese pentecostali a Castel Volturno, contro tre cattoliche. I nigeriani che arrivano si dedicano alla manovalanza, allo smercio di droghe o allo sfruttamento e pratica della prostituzione. A volte anche al commercio. Quando un negozio fallisce spesso diventa una chiesa. E ci sono anche tanti pastori italiani, come il personaggio del film, Don Salvatore,che sfruttano il vizio umano della speranza facendo anche tanti proseliti. Cerchi su YouTube, le assicuro che ne troverà di personaggi così. Vestiti da preti anche se magari non sono nemmeno in carica, che battezzano i neri nelle piscine sulla Domitiana, sono visioni piuttosto grottesche. L’Italia è anche questa. E’ la risposta alla disperazione, quando non si ha più nulla la si cerca ovunque.
Ha definito la speranza un ‘vizio’. Perché?
Perché può essere pericolosa, se ti rivolgi solo alla religione, affidi ad altri il tuo destino. Io personalmente mi reputo un uomo di fede, o comunque attendo alla spiritualità, può essere una risorsa e un valore, ma anche una debolezza che permette agli altri di sfruttarti. E’ curioso che il film sia piaciuto a ‘Famiglia Cristiana’. Anche se il prete è rappresentato in quel modo, hanno capito che comunque c’è una spinta di fede sincera.
Mi parli dei suoni del film. Della musica, ma anche del ritmo intrinseco della trama e del montaggio, sempre in contrappunto, di quel finale smorzato.
Con Avitabile abbiamo subito deciso di usare pochi strumenti, e suoni molto sospesi. C’è la terra, perché le percussioni sono realizzate su botti di vino dei bottari di Portico, con cui Enzo collabora da anni. Tutte le prove sono state fatte mentre suonavano. Poi durante le riprese le botti andavano via e il ritmo continuava a battere dentro. Volevo far capire che c’era comunque un’allegria di fondo. E ho voluto mantenere separati i due livelli, la colonna sonora di fondo, e le canzoni cantate dalle ragazze, che sono scritte a parte appositamente per il film. Non volevo che fossero canzoni neo-melodiche. Nella finzione le scrive il padre delle ragazze, non volevo rappresentarlo come totalmente privo di talento. E infatti l’ultimo pezzo che scrive è proprio ‘Tutt’eguale song ‘e criature’, che è un capolavoro.
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Il film di Denis Villeneuve segnalato dalla giuria di critici e giornalisti come il migliore per l'uso degli effetti speciali. Una menzione è andata a Voyage of Time di Terrence Malick per l'uso del digitale originale e privo di referenti
Il direttore della Mostra commenta i premi della 73ma edizione. In una stagione non felice per il cinema italiano, si conferma la vitalità del documentario con il premio di Orizzonti a Liberami. E sulla durata monstre del Leone d'oro The Woman Who Left: "Vorrà dire che si andrà a cercare il suo pubblico sulle piattaforme tv"
Anche se l’Italia è rimasta a bocca asciutta in termini di premi ‘grossi’, portiamo a casa con soddisfazione il premio Orizzonti a Liberami di Federica Di Giacomo, curiosa indagine antropologica sugli esorcismi nel Sud Italia. Qualcuno ha chiesto al presidente Guédiguian se per caso il fatto di non conoscere l’italiano e non aver colto tutte le sfumature grottesche del film possa aver influenzato il giudizio finale: “Ma io lo parlo l’italiano – risponde il Presidente, in italiano, e poi continua, nella sua lingua – il film è un’allegoria di quello che succede nella nostra società". Mentre su Lav Diaz dice Sam Mendes: "non abbiamo pensato alla distribuzione, solo al film. Speriamo che premiarlo contribuisca a incoraggiare il pubblico"