Io sono l’abisso: la proiezione stampa comincia con una lettera “fuori campo” che Donato Carrisi – regista, ma prima ancora scrittore del libro omonimo – ha fatto recapitare ai giornalisti presenti, invitandoci a non svelare i nomi degli interpreti, dei tre protagonisti in particolare, cercando con chi scrive una complicità per costruire una curiosità intorno al prodotto, per valorizzare la storia, seppur “consapevoli che si tratti di un segreto fallace e che, per conoscere i componenti del cast, è sufficiente fare una ricerca di internet”. Quella di non svelare i nomi degli interpreti è una sfida che ci è stato suggerito di raccogliere, senza obblighi naturalmente, e “si tratta di una scelta artistica, condivisa con gli attori. Già nel romanzo avevo deciso di togliere i nomi, e questo ha aiutato l’immedesimazione del lettore: s’è creata così un’altra strada per l’empatia. ‘L’uomo che pulisce’ per nove settimane è stato davvero isolato, nessuno lo chiamava per nome sul set, ero l’unico a potergli rivolgergli la parola; alla ‘cacciatrice di mosche’ ho chiesto di essere una persona che è esistita: questa donna s’è veramente dedicata ad altre donne che subivano violenza, e avevo bisogno di togliere davvero qualcosa anche a lei. L’invito al pubblico è di andare a vedere il film senza conoscere il cast, poi la scelta è naturalmente libera” dice Carrisi, che ironizza aggiungendo – in caso noi giornalisti rompessimo il patto – “non vi manderò a casa un serial killer”.
Come serial killer è proprio “l’uomo che pulisce” – una prova recitativa molto convincente – “un serial killer che è l’insieme di tutti i quelli che ho incontrato nei miei studi di Criminologia, tra cui Jeffrey Dahmer, di cui questo ha la pettinatura; ma davvero ho fatto un collage di molti, e gli ho attribuito anche dei tic, come la camminata, e tra i molti c’era anche Luigi Chiatti: lui era un narcisista, si vantava degli omicidi commessi, ma poi taceva la sua infanzia, appresa solo dai testimoni. Io lì provavo compassione per il mostro, eppure il mostro è il male assoluto: volevo ottenere lo stesso risultato in un racconto, volevo il pubblico provasse questo per un serial killer, che tra l’altro, se fosse mostruoso, – secondo l’accezione collettivamente condivisa – lo prenderebbero subito, invece sono esseri banali, ecco perché imprendibili”, continua Carrisi.
“L’uomo che pulisce”, commenta la richiesta di anonimato come “un’opportunità. Ci sono stato subito alla proposta: riconosco un valore all’esperienza, che con questa modalità si sottolinea”. E del suo personaggio – che sicuramente con il citato Chiatti ha in comune una storia d’infanzia che è stata imprinting per il resto della sua esistenza – racconta: “Donato mi aveva proposto non parlassi con nessuno sul set, mi ha tolto il telefono: mi ha tagliato fuori; volevo in qualche modo disobbedirgli, questo mi aveva creato un calore, e se fuori set incontravo la troupe la salutavo ma loro mi evitavano, e lì ho incontrato il rifiuto, che apparteneva al mio personaggio”; un rifiuto non solo sociale, ma proprio della quotidianità de ‘l’uomo che pulisce’, netturbino; “le persone dicono bugie, mentono: la spazzatura no” è tra l’altro refrain e una delle chiavi della vicenda. Certo, l’interpretazione de ‘l’uomo che pulisce’ ha richiesto: “milioni di difficoltà ma cerco di trovare sempre qualcosa che vada oltre l’evidente, creando un’aderenza. Gli elementi costitutivi sono segni da trasformare e abitare, per capirne gli effetti. Il lavoro psicanalitico è un termine di riflessione, lasciando però spazio anche all’artigianato”.
C’è una circolarità liquida, oltre che di concetto, in Io sono l’abisso: si comincia da una piscina e dall’infanzia e si passa ancora per l’acqua, quella del lago, quello di Como, per finire sotto una cascata che travolge e avvolge, per lo scoppio di una tubatura, che inonda la vita e la morte, ma – in fondo – riporta a una nuova vita, quella di un neonato, Diego. L’unica delle tre identità nominali – quella del bebé simbolica, essendo il nome proprio del dramma materno che si porta dietro ‘la cacciatrice di mosche’ -, insieme a quella di Vera, la mamma del piccolo (che poi diviene ‘l’uomo che pulisce’), nome scelto “perché il bambino non la chiama mai ‘mamma’: lei è un personaggio dalle mille sembianze. E a Michi, necessario che avesse un nome proprio perché non esiste davvero, quindi doveva avere un identità” e poi, i due – Vera e Michi – “in fondo sono la stessa persona”, continua Donato Carrisi.
Gli altri due punti che permettono si disegni il triangolo narrativo umano sono “la ragazzina col ciuffo viola”, 13enne abbracciata dal male e in fondo salvata da un altro male, nella sua espressione di bene – ‘l’uomo che pulisce’, appunto – e “la cacciatrice di mosche”, la cui scelta, racconta l’autore, non è stata immediata, infatti “non riuscivo a trovarla, avevo timore a chiamare lei…, ma quando ci siamo incontrati, dopo la prima lettura, ho sentito la voce della ‘cacciatrice’: le ho chiesto un attimo per capire se fosse una sensazione momentanea o meno e così lei… è arrivata veramente all’ultimo momento. Quando lei… ha finito l’ultima scena, nel night club – in cui ‘l’uomo che pulisce’, con tanto di parrucca che nasconda una cicatrice sulla calotta cranica che lo identifica, avvicina donne bionde e mature, per finirle, chiaramente identificando in loro la figura materna, ndr – , io non sono riuscito a dire il suo nome e la troupe piangeva tutta: c’era affezione per questa donna, e questa cosa l’ha portata lei…, non puoi scriverle… certe cose” è tutto un patrimonio proprio dell’interprete per Carrisi.
“La cacciatrice di mosche” risponde dicendo: “devo a Donato un ruolo importante, che non avevo da tanti anni: finite le riprese volevo portarmi a casa l’abito, mi aveva dato una libertà enorme. È un personaggio notevole, che nel film ha un percorso; nel film è una sorpresa: la suspense la dà ‘la cacciatrice’ con i sentimenti. Lei all’inizio, anche per lo spettatore, non è geometrica: pian piano invece accompagna il film nella chiarezza, in quel che succede. Non ho sentito fatica o dolore: io capisco sempre cosa mi chiede Donato, lui è molto chiaro, allora diventa facile ‘rispondere’. Lui richiede molta concentrazione: così costruisci, porti le tue capacità, reciti, è bello”. E l’attrice, sulla richiesta di anonimato nominale, commenta dicendo: “gioco un po’ in casa perché non sono un’attrice narcisista. Stiamo portando avanti una cosa scelta sin dall’inizio, ora sembra un gioco estremo ma s’è solo deciso così sin dall’inizio”.
Il gioco estremo, però, vive certamente nel male, e, come viene detto nel film, “il male è un cerchio”: Carrisi specifica che “non volevo ci fossero innocenti tra i personaggi, che questi prevalessero sulla storia, tanto che la detection si risolve serenamente; non volevo raccontare il bianco e nero, ma la zona grigia. Il male si spezza solo con l’amore, perché il male tende a rigenerarsi, in tutti i contesti sociali e famigliari. È nella solitudine che nascono le cose peggiori, diventiamo davvero malvagi quando ci nascondiamo al resto del mondo e lì inizia a formarsi il cerchio del male. Un serial killer non è prodotto della sola follia: s’incuba in un contesto malsano, siamo tutti responsabili delle gesta del killer, così come molti ignorano il trauma infantile del personaggio. E al centro di questo thriller non c’è un fatto di sangue, ma una buona azione (salvare ‘la ragazzina dal ciuffo viola’): è grazie all’amore che si spezza il cerchio e lui si salva, almeno per una persona, per la ragazzina; volevo il pubblico si sporcasse le mani e si sentisse coinvolto, senza voler assolvere nessuno. Non era un film facile: ho proposto una rivoluzione nel genere, innestare il thriller nel dramma. La paura non è difficile da ricreare: farlo con i sentimenti, fare un film che fa entrare spaventati e fa uscire commossi, non era scontato, cosa che chiedeva anche una lungimiranza produttiva”, curata da Palomar e Vision Distribution.
Per la prima, Carlo Degli Esposti dice che “Donato ci ha imposto una liturgia anche nella preparazione. È il primo film di genere che Palomar produce, in un momento in cui è difficile affezionarsi a delle storie, e le sue mi hanno sempre affascinato sui libri, così ho trovato entusiasmante produrlo. Dà la possibilità di farci guardare dentro di noi con più serenità: lui ci fa entrare in una storia che ci fa uscire con qualche certezza in più sui rapporti con gli altri”.
Per Massimiliano Orfei, che con Vision è anche distributore del film, dal 27 ottobre al cinema, uscire in sala è “un atto di fede, mettendo da parte soluzioni più comode come la piattaforma. Il rischio l’abbiamo accettato perché con un maestro come Carrisi è molto calcolato; come avevamo sperato nei mesi scorsi, invece non ci sono controtendenze a favore della sala, ma il prossimo fine settimana potrebbe determinare un po’ la svolta”.
E, per aggiungere un po’ di realistico thriller a quello narrativo, c’è da dire che, se l’identità degli attori non deve essere svelata, c’è da cercare anche quella dell’autore stesso dentro al film, una presenza “un po’ hitchcockiana”.
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Dal film family dell’autore nordico, un libro kids/teen a cura di Manlio Castagna e con le illustrazioni di Gianluca Garofalo, che anticipa e accompagna l’avventura su grande schermo, al cinema dal 14 novembre
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