VENEZIA – Capita spesso che un esordio abbia a che fare con la storia del suo autore. È facile, all’inizio, partire da sé. Molto più complesso, invece, andare oltre, sfondare l’autobiografia per toccare corde quasi universali. Con il suo primo film, Giovanni Tortorici riesce in questa sfida grazie a un ritratto generazionale che mette radici nella sua storia ma fiorisce molto più in là, dove tanti coetanei del suo protagonista, interpretato dall’esordiente Manfredi Marini, scoveranno qualche verità che li riguarda. Diciannove non è però un racconto ruffiano sulla tanto discussa GenZ. Proprio perché costruito su memorie personali, Tortorici è libero dagli slogan di un certo mainstream.
Diciannove è infatti il racconto di un ragazzo disperso, capace di una severità senza pari verso se stesso e di uno sguardo quasi fondamentalista nei confronti del mondo che lo circonda. Il film, presentato in anteprima nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia, è prodotto dalla Frenesy Film Company di Luca Guadagnino, di cui riprende una certa cifra stilistica, dai vari zoom ottici agli improvvisi movimenti di camera, fino alle scelte musicali che spaziano tra musica classica ed elettronica. Diciannove prende spunto dalla storia di Tortorici, a tal punto che la stanza in cui il giovane Leonardo inizia a perdersi tra antichi tomi di letteratura italiana, rinnegando la versione rimasticata e appiattita per i moderni dal mondo universitario, è la stessa in cui ha vissuto Tortorici per un certo periodo.
“Ho concepito il film immaginando da subito come sarebbe venuto fuori visivamente”, racconta l’esordiente Tortorici, classe 1996. “Sono sempre stato legato allo studio del linguaggio, ma comunque in rapporto al racconto, perché non vorrei mai essere un’esteta fine a se stesso”. Luca Guadagnino, racconta il giovane regista, ha dato al progetto un’impronta di totale libertà, senza indicare direzioni o imporre limiti. “Ha avuto rispetto della mia visione e mi sono sentito molto privilegiato, perché avendo un produttore regista ha fatto in modo che trionfassero le necessità autoriali rispetto a quelle produttive”, continua Tortorici.
Un pastiche di stili che riguarda in parte anche la confusione del protagonista Leonardo, diciannovenne dapprima indeciso sul percorso universitario da intraprendere e infine giovane letterato integralista, in lotta con l’Accademia e rigorosamente trecentista, convinto dell’influenza nulla della letteratura del ‘900 (“Pasolini scriveva male”, arriverà persino a dire).
Un estremista colmo di rabbia, trascinato da stati depressivi e improvvisi momenti di euforia sospinti dall’alcool delle poche serate in cui si concede al mondo esterno. Nel suo spirito anti convenzionale, Leonardo diventa un moralista e per quanto mossa da una visione opposta a quella del mondo che lo circonda, non c’è in lui nessuno spazio per azioni capaci di sovvertire lo status quo. Difatti, quando prepara una lettera contro il blasonato ma inconsistente professore universitario – un momento che Tortorici inquadra come la scena dell’omicidio in un film thriller – all’ultimo rinuncia, lasciando il mondo così com’è e continuando ad avvelenare se stesso con una rabbia che non si esprime in nulla.
“Mi piace molto quando gli autori parlano di loro stessi – racconta – apprezzo l’intimità e il personalismo”. Il ritratto generazionale, invece, l’ha trovato dopo, sottolineato subito dai primi spettatori del film. “In tanti mi hanno detto di essersi ritrovati, ma non è qualcosa a cui ambivo. Forse è più facile diventare generazionale nel momento in cui si cerca la propria autenticità”.
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