Rispetto alla storia del decennio precedente, ciò che più colpisce nell’attuale situazione produttiva e ideativa del cinema italiano è, da una parte, la scomparsa pressoché totale del cinema di genere, almeno nel senso tradizionale con cui si definisce il cinema di genere e, dall’altra, l’ulteriore ricambio delle forze creative che si affollano sulla pista di lancio, con una indifferenza crescente nei confronti della necessità di una competenza o di un curriculum per poter aspirare a dirigere un film. Se all’inizio degli anni Ottanta il successo di molti film rendeva quasi irrilevante la presenza di una storia o di un racconto, alla fine degli anni Novanta viene piuttosto curata con maggior attenzione la storia e appare quasi irrilevante la competenza registica. Il successo di Aldo, Giovanni e Giacomo, di Leonardo Pieraccioni, di Ugo Chiti, di Giovanni Veronesi, di Vincenzo Salemme, l’esordio di Antonio Albanese, di Massimo Ceccherini, di Giobbe Covatta, e la loro mancanza pressoché totale delle più elementari conoscenze in fatto di ripresa, uso delle luci, capacità di inquadrare nel modo più opportuno lo spazio e, magari, il loro diabolico perseverare dopo il primo film, sono dovuti sicuramente al fatto che per il pubblico che va al cinema la qualità della scrittura filmica non è un elemento necessario, una condicio sine qua non. L’omogeneizzazione prodotta dalla televisione, l’abbassamento della qualità dei film tv o, meglio, il prevalere e il trionfare di quella che si potrebbe definire come la fast-tv ha ripercussioni anche sulla confezione e sulla cura registica dei prodotti cinematografici più recenti.
Forse è giunto il momento di constatare che il pubblico non chiede cinema al cinema italiano e che il cinema non alimenta più l’inventio, la dispositio, la memoria e l’actio sia della regia cinematografica che televisiva dei prodotti di finzione degli ultimi anni.
Eppure, a guardare attentamente nei curricula, si scopre che un numero di autori tutt’altro che modesto ha conseguito il diploma di regia o sceneggiatura presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma a partire dalla gestione rosselliniana (Nico D’Alessandria, Rosalia Polizzi, Vito Zagarrio, Francesca Archibugi, Isabella Sandri, Laura Belli, Vanna Paoli, Ferdinando Vicentini Orgnani, Gabriele Muccino, Gianfranco Isernia, Graziano Diana, Roberto Petrocchi, Gianfranco Pannone, Francesco Bruni, Marco Guglielmi, Massimo Martella, Gianni Zanasi, Ivan Cotroneo, Daniele Cini, Roberto Petrocchi…) o si è diplomato presso la Scuola di cinema di Monaco (Edoardo Winspeare, Claudio Pappalardo), o ha seguito corsi di sceneggiatura o regia negli Stati Uniti, a Los Angeles, come Tonino Risuleo o Cristiana Farina o a New York, come Giovanni Robbiano, Enrico Coletti, Andrea De Liberato alla New York University, Diego Ronsisvalle alla New York Film Academy, Gianna Maria Garbelli al Lee Strasberg Theatre Institute, Massimo Trabaldo all’American Film Institute di Beverly Hills, Cristiano Bortone all’University of Southern California e alla New York University… O in Germania, come Fabio Segatori, che a Berlino, con una borsa di studio della Comunità Europea, ha seguito i corsi degli sceneggiatori Kenningham e Schlesinger, o in Inghilterra all’International Film School come Tommaso Iandelli Scorpione o Anna Negri.
Andrà prima o poi fatta una riflessione seria su cosa e come si è insegnato al Centro Sperimentale dall’era di Rossellini ai giorni nostri, sui modelli registici e professionali proposti, sui mezzi tecnici a disposizione degli allievi, sullo standard professionale proposto, sull’investimento statale nei confronti di questa struttura, sul suo tenere il passo con lo sviluppo tecnologico, ecc.
Ma non esistono solo registi diplomati da scuole prestigiose o con una vera storia alle spalle. Alcuni, come Fabrizio Cattani, si sono diplomati nel corso di regia cinematografica del Laboratorio Cinema di Roma, riconosciuto dalla regione Lazio, o alla Civica Scuola di cinema di Milano, come Cesare Alberto Cicardini; qualcuno, come Augusto Zucchi, segnala nel suo curriculum di essersi presentato all’esame del Centro Sperimentale “presentando uno studio sul cinema comico con Mario Verdone e Roberto Rossellini, ottenendo un buon successo, ma preferendo concludere gli studi di teatro”.
Altri ancora, come Piermaria Formento, Maurizio Zaccaro, Marcello Siena, Giacomo Campiotti, hanno avuto un passaggio decisivo per quell’anomala “Scuola di Bassano” ideata da Ermanno Olmi che, se non altro, ha prodotto un’etica registica ben individuabile e comune a personalità molto diverse.
A decine hanno invece seguito le vie più brevi e meno istituzionali frequentando corsi di sceneggiatura di durata variabile, sotto la guida di Tonino Guerra, Furio Scarpelli, Robert McKee, Nikita Mikhalkov, e hanno capito, grazie al carisma di questi autori, cosa volevano fare nella vita.
Altri ancora, come Nina di Majo, esordiente con un’opera prima a ventiquattro anni, hanno cominciato prestissimo, ancora alle scuole superiori, come aiuto-regista in spettacoli teatrali, per poi passare subito all’aiuto-regia cinematografica (nel suo caso con Mario Martone per L’amore molesto).
In ogni caso il cinema è tornato a rappresentare un luogo privilegiato e ideale di comunicazione per una miriade di giovani sparsi su tutto il territorio nazionale. Spesso, però, si tratta di autori di testi che hanno ideato, scritto e vorrebbero dirigere il film, senza alcuna vera esperienza professionale anteriore, con un’alfabetizzazione cinematografica elementare e, magari, con l’assimilazione di overdosi di videoclip, di spot pubblicitari e di trasmissioni televisive e un sempre più diffuso senso di perdita delle ragioni cinematografiche, come se, all’atto del concepimento, le storie fossero già destinate a un parto cesareo ritardato in video. Ma, come si è anche visto, vi sono autori con fior di carriera alle spalle che, pur diplomati, hanno fatto fatica a realizzare il loro primo film, dovuto adattarsi a girare spot pubblicitari e tenuto per anni il loro sogno nel cassetto, in attesa di essere premiati dalla ruota della fortuna.
(estratti del saggio di Gian Piero Brunetta Identikit del cinema italiano, oggi. 453 storie, tratto dal volume Il cinema della transizione, a cura di Vito Zagarrio, edito da Marsilio)
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