E’ il film più atteso della stagione, Interstellar, in sala con Warner dal 6 novembre. E’ la prima prova di Christopher Nolan dopo il successo della trilogia di Batman, con un cast d’eccezione – Matthew McCounaghey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Michael Caine tra i nomi principali – un tema fantascientifico (ma con approccio più scientifico che ‘fanta’) e una struttura impegnativa, ricca di temi, spalmati su una durata di circa tre ore. In un futuro prossimo, l’ingegnere Cooper (McCounaghey) vive nel suo ranch dove coltiva la terra assieme a suo suocero e ai suoi due figli. Sua moglie è morta e lui è un uomo fuori dal tempo. Qualificato per guidare astronavi, si ritrova in una società a cui – apparentemente – non servono piloti, scienziati o esploratori, ma braccia per coltivare una terra che diventa sempre più arida e infruttuosa. Le scorte di cibo iniziano a scarseggiare e il rischio di estinzione per l’umanità si fa imminente. Tutto cambia quando Cooper e sua figlia, guidati da un misterioso messaggio in codice che sfrutta le spinte gravitazionali, vengono guidati verso una base segreta della N.A.S.A. All’ingegnere viene richiesta una missione suicida: abbandonare la Terra con un gruppo di esperti per gettarsi dentro un buco nero che li porterà dall’altra parte del sistema solare, alla ricerca di un pianeta abitabile da colonizzare. Per la teoria della relatività, il tempo per chi è nello Spazio a contatto con un ‘wormhole’ scorre in maniera molto più lenta. Ciò che per Cooper sono ore, sulla Terra diventano anni. Quindi c’è il rischio non solo che lui non riveda mai più la sua famiglia, ma anche che la vita sul suo pianeta si estingua prima di riuscire a portare a termine la missione, vanificando così ogni sforzo.
Su questa costante strategia di tensione, diluita su anni di esistenza anziché sul pericolo immediato come avviene spesso nelle pellicole di azione e sci-fi, si regge il punto di forza principale del film, che si comporta per il resto come un ‘sunto’ di quanto affrontato, magari in maniera meno analitica, da altri illustri esponenti del settore. Da Terminator a Il Pianeta delle scimmie passando per il caposaldo 2001: Odissea nello spazio fino al recente, potentissimo e concentrato Gravity. Paradossi temporali, relatività, dimensioni alternative, la fine della specie umana e un nuovo inizio. E su tutto l’ironia della ‘Legge di Murphy’, basata sul principio che ‘tutto ciò che può accadere, accadrà’. Da un certo momento di film in poi, questo significa che regista e sceneggiatore se la possono gestire come preferiscono. Nessuno che sia entrato in un buco nero ne è mai uscito per raccontare cosa ci ha trovato dentro, dopotutto. E l’espediente narrativo diventa dunque terreno fertile per articolate riflessioni filosofiche ed esistenziali. Nolan non ha paura di prendersi il suo tempo, procedendo con un ritmo lento e dilatato. Come se lui stesso e il suo pubblico si trovassero all’interno di un buco nero. In questo senso il film è assolutamente sincero e autoriale. Mentre era evidente nella serie de Il Cavaliere Oscuro (specialmente nell’ultimo episodio), una certa sofferenza dovuta a pressioni da parte degli Studios – dovute anche al potenziale ‘commerciale’ del personaggio – qui il regista e suo fratello Jonathan, co-autore della sceneggiatura, fanno ciò che vogliono e ciò che sentono. C’è sintonia tra di loro: pur trattandosi di un film complesso, lo script presenta una forma assolutamente lineare – o circolare, se vogliamo – priva di punti oscuri o grosse sbavature.
Ma è l’esperienza cinematografica stessa a prendere il sopravvento sui contenuti. Come afferma lo stesso Nolan “quando si porta il pubblico così lontano dalle proprie consuetudini di vita, diventa centrale ancorarsi alla nostra sensibilità, a come siamo connessi gli uni agli altri”. Non a caso la pellicola è stata realizzata in uno spettacolare – e più ‘spaziale’ che mai – formato IMAX, che però in Italia è come sempre di difficile fruizione, data la scarsità di sale attrezzate. Le riprese sono state realizzate in pellicola in 35mm e 65mm, e questo è marchio di fabbrica della ditta Nolan. Interessante la scelta di avvalersi della consulenza dell’astrofisico Kip Thorne, esperto di relatività generale, per rendere credibile lo sviluppo degli aspetti più complessi. Uno sviluppo che segna un legame (non sempre riuscito) tra scienza e fantascienza: “E’ un film – ha detto Thorne – in cui la scienza è integrata sin dalle prime fasi della sua realizzazione”. D’altro canto, l’idea del film nasce proprio da una sua intuizione, originariamente proposta a Spielberg e poi saltata a causa del divorzio tra la Dreamworks e la Paramount. Fu allora che Jonathan Nolan, già incaricato di realizzare lo script, propose suo fratello. E se il film presenta diversi punti in comune con il cinema spielberghiano, nel bene e nel male – il ‘sense of wonder’, ma anche l’incapacità di ‘mettere il punto’ con la proposta di una serie interminabile di ‘finali multipli’ – è proprio grazie alle equazioni sulla geometria dell’universo di Thorne che gli esperti di computer grafica ed effetti speciali hanno realizzato un’accurata rappresentazione di un buco nero.
E addirittura, commenta Amedeo Balbi, astrofisico dell’Università di Roma Tor Vergata e divulgatore: “Gli autori del film, avendo a disposizione computer molto potenti e risorse che le università spesso non possiedono, sono riusciti a ottenere un modello di buco nero molto realistico. Non si tratta, infatti, di un cartone animato, di una semplice interpretazione artistica, ma di un risultato dietro il quale c’è la fisica di Einstein e il lavoro di uno dei maggiori conoscitori della sua teoria sull’universo”. Insomma, se al film non dovesse andare la nomination all’Oscar, Nolan può sempre rivolgersi al Nobel per la scienza.
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