Delusione Italia nell’anno d’oro della Francia

Nessun premio per Moretti, Sorrentino e Garrone, tre per i cugini d'oltralpe. La giuria dei Coen impermeabile al clima che si è respirato al festival e non solo tra gli italiani


CANNES – Doveva essere l’anno dell’Italia e invece sarà ricordato come l’anno della Francia, che con cinque film in concorso (di cui almeno tre non certo memorabili) porta a casa la Palma d’oro – andata a Dheepan di Jacques Audiard – e altri due premi “pesanti”: a Vincent Lindon per La loi du marché e all’attrice e regista Emmanuelle Bercot per Mon Roi di Maiwenn.

Niente di niente per Nanni Moretti, Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, nonostante l’apprezzamento della critica non tanto, non solo, italiana, ma internazionale. Quella francese schierata a favore di Mia madre, che ha fatto il pieno di “palmette” su Le Film Francais, quella americana osannante Youth La giovinezza, che ha fatto il pieno di vendite estere, ma affascinata anche dal mondo sanguinario e barocco di Tale of Tales. È chiaro che le giurie sono sovrane e non necessariamente si lasciano influenzare dal clima che si respira durante il festival né dai desiderata dei festivalieri. Ed è chiaro che i Fratelli Coen hanno pilotato questa giuria verso i propri, ben definiti, gusti. Ma anche lasciando fuori ogni discorso sul cinema italiano, che non nasce da una presa di posizione nazionalista ma da una valutazione del livello del concorso nel suo complesso, bisogna dire che i nostri tre film spiccavano. Adesso evitiamo di passare dall’esaltazione alla depressione, incassiamo i risultati raggiunti, ripartiamo da lì per continuare un discorso che ci ha portato in un pugno di anni a un evidente rinnovamento. Semmai guardiamo al modello dell’industria francese, che spesso non vince niente ma è solida ed esportabile. E comunque di questi tre film sentiremo ancora molto parlare.  

A proposito di premi non sempre scontati: cinque anni fa il 63enne Jacques Audiard vinse il Grand Prix con Il profeta, film che fu per molti una folgorazione e a cui qualcuno avrebbe dato la Palma; tre anni dopo non ebbe niente con Un sapore di ruggine e ossa. Adesso ha conquistato i Coen con un film duro ma pieno di tenerezza, storia di una tigre Tamil che per raggiungere l’Europa mette insieme una finta famiglia insieme a una giovane donna che vuole scappare a quegli orrori e a una ragazzina rimasta orfana. I tre arrivano nella banlieue parigina dallo Sri Lanka infiammato dal conflitto e trovano una realtà altrettanto violenta, il quartiere marginale è dominato dalle gang dello spaccio. L’ex soldato Dheepan, che si è visto strappare e uccidere moglie e figli, che ha ucciso lui stesso, vuole rifarsi una vita andando contro il destino che sembra perseguitarlo. Ed è chiaro il parallelismo tra due realtà apparentemente così lontane, ma segnate dal sangue e dall’odio. Del resto il protagonista, Antonythasan Jesuthasan, è testimone vivente di simili fatti: arruolato a 16 anni tra i guerrieri Tamil divenne un ragazzo soldato e fuggì in Francia solo nel ’93. Dopo mille umili mestieri oggi è diventato scrittore.

Molti la Palma l’avrebbero data a Hou Hsiao Hsien e al suo estetizzante, magnifico, ma anche indecifrabile The Assassin che soddisfa i palati cinefili più esigenti e che ha ottenuto “solo” il premio per la regia. Ma il vero outsider è Saul fia, l’opera prima dell’ungherese Laszlo Nemes che vince il secondo premio, il Grand Prix, con un’idea di regia molto forte, mostrare l’orrore del lager sfocato e confuso, stando tutto il tempo addosso al protagonista, che cerca di dare sepoltura al cadavere del figlio.
Sconcertante è l’ex aequo tra la straordinaria Rooney Mara di Carol (love story lesbica firmata Todd Haynes che nella sua assoluta perfezione avrebbe meritato ben di più) e la modesta prova di Emmanuelle Bercot, in Mon roi di Maïwenn dove è una donna qualsiasi che si innamora dell’affascinante narciso Vincent Cassel e poi impiega tutto il film per disintossicarsi sentimentalmente. Pienamente condivisibile la scelta di Vincent Lindon, che in La loi du marché di Stephane Brizé – dove è l’unico attore professionista – dà una bella prova nei panni di un operaio disoccupato che ce la mette tutta per rimettersi in piedi in una società che ha perso ogni rispetto per l’essere umano. Il messicano Michel Franco incassa il premio alla sceneggiatura di Chronic, dove un bravissimo Tim Roth è un infermiere che si occupa di malati terminali e li aiuta anche ad andarsene: il film ricorda un po’ Miele e chissà che proprio la sceneggiatura non sia la cosa più originale. Una conferma arriva per il talento del greco Yorgos Lanthimos, che sempre qui a Cannes aveva vinto Un Certain Regard con Kynodontas e stavolta ottiene il Premio della Giuria con l’inquietante ma compiaciuto The Lobster, che parte bene nel mettere in scena un mondo distopico dove i single hanno un pugno di giorni per trovare un partner, e sennò saranno trasformati in animali, ma finisce per esagerare in una seconda parte meno controllata e assai contorta. Grande assente Jia Zhang-ke e il suo Mountains May Depart, che dalla vecchia Cina di Fenyang ci porta nel futuro più che mai oscuro della globalizzazione selvaggia.  

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24 Maggio 2015

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