DANILO DONATI


Farfalle, cigni e cavalli a dondolo, oche starnazzanti, soldatini di piombo a grandezza umana, uno squalo con la pancia aperta, grandi torte ricoperte di confetti colorati, bambole vestite di tulle e di velluto, pareti a specchio con grandi figure dipinte, compreso un angelo con la spada sguainata. Altre simili ai personaggi dei tarocchi, ai pupi siciliani o alle decorazioni delle vecchie scatole di biscotti.
E’ il Paese dei Balocchi del Pinocchio di Benigni. Un “paese come questo non è mai esistito”, scriveva Carlo Collodi (leggi il romanzo online) nel 1880. E così Danilo Donati, due volte Oscar per il Casanova di Fellini e Romeo e Giulietta di Zeffirelli, ha potuto lasciar briglia sciolta alla fantasia ripercorrendo il tempo che lo separa dalla prima lettura della fiaba, nel lontano 1933. “Mi hanno portato centinaia di illustrazioni ma io non ne ho voluto sapere. Non ne ho voluto sapere neanche del Pinocchio in stile tirolese di Disney e quello di Comencini lo ricordo vagamente. Invece c’è molto l’Italia umbertina, fine Ottocento-primi Novecento, in questa visione”. Conferma la produttrice Elda Ferri, che insiste però sull’accostamento di un’iconografia tradizionale agli interventi al computer.
Tanti infatti gli effetti speciali supervisionati dal creatore delle magnifiche evoluzioni di un film come La tigre e il dragone, Rob Hodgson: personaggi rimpiccioliti o ingranditi, il Grillo Parlante o Mangiafuoco, topolini bianchi creati dal nulla per tirare il cocchio della Fata. “Per me non dovevano esistere, sono difetti speciali e non sono cinema all’italiana”, dice ancora Donati, classe 1926. E non avrebbe voluto trucchi neppure per allungare il naso a Benigni. Per lui Pinocchio è il trionfo del sapiente artigianato italiano contro il cinema industriale testimoniato dai tanti artisti al lavoro nei capannoni di Papigno. Il film sarà le due cose insieme, quanto ai balocchi, il Comune di Terni li esporrà in un museo. Perché la favola continui.

autore
08 Novembre 2001

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