BOLOGNA – Gideon Bachmann (1927-2016), filmmaker e giornalista poliglotta, amico intimo di Fellini, Pasolini, Rosi e altri maestri del cinema italiano, aveva depositato i propri vastissimi archivi cartacei, sonori e filmici all’associazione Cinemazero di Pordenone. Esplorando metodicamente tutti questi materiali audiovisivi conservati a Gemona, nei cellari della Cineteca del Friuli, lo storico Riccardo Costantini ha scoperto un mediometraggio realizzato in 16mm da Bachmann a Roma nel 1978.
Prodotto dalla rete tedesca ZDF e intitolato Eine Kamera Ist Kein Molotow-Cocktail (La cinepresa non è una bottiglia Molotov), il film di 45 minuti affronta a caldo alcune turbolenze dell’epoca. I cortei antifascisti, i collettivi comunisti del quartiere Quadraro, i dibattititi tra le esponenti femministe, l’avvento delle videocamere leggere ad uso dei militanti.
Protagonista il regista pordenonese Damiano Damiani mentre sta girando in esterni Io ho paura con gli attori Gian Maria Volonté, Mario Adorf, Erland Josephson e il direttore della fotografia Luigi Kuweiller. Di buon grado Damiani affronta le discussioni roventi su limiti e ambizioni del cinema politicamente impegnato.
Il titolo del film è tratto da una frase polemica lanciata da Bernardo Bertolucci nel prologo. Cesare Zavattini interviene per esternare la propria gioia per l’avvento di un cinema sociale innovativo, non commerciale. Tra i partecipanti al reportage-vérité, la futura produttrice Donatella Palermo e la videomaker Anna Lajolo.
Nel 1996 Gideon Bachmann ricordava: “Nel 1978 ho girato il mio secondo documentario politico. Nel frattempo mi ero trasferito in Italia e avevo conosciuto Pasolini, Rosi, Damiani, De Santis, Germi e molti altri registi ‘politici’, continuando a fare documentari sui registi, fra cui Ciao, Federico! su Fellini. […] Eine Kamera Ist Kein Molotow-Cocktail era stato fatto con la speranza che la politica potesse motivare i giovani e che i film potessero essere veicolo di tale motivazione. Credevo ancora che con il cinema si potesse fare la rivoluzione. […] Ma certo non solo i film di registi blasonati. I nomi succitati avevano realizzato film politici per tutta la vita, senza riuscire a incidere più di tanto nella società. Ciò che volevo indagare con questo documentario era la possibilità di un cambiamento attraverso un differente tipo di cinema, fatto da non professionisti, dall’uomo della strada in prima persona. […] Era il tempo dei comitati di quartiere e delle ‘centocinquanta ore’, movimenti di base che avevano l’obiettivo di spingere il semplice cittadino ad apprendere gli strumenti per prendere parte attiva nella riforma dei media. […] Ho pensato che se avessimo realizzato quei film da soli, se non li avessimo visti lassù, lontani, remoti sul grande schermo, ma se avessimo lavorato sodo e ricercato, girato, montato e distribuito noi stessi, avremmo toccato le persone nei loro cuori, e attraverso i loro cuori, nelle loro menti. […] Il mio film sul ‘cinema di quartiere’ si è trasformato nella storia della vita di Damiano Damiani. Abbiamo scoperto mentre giravamo che lui stesso era molto più interessato a lavorare con noi a un film sul cinema di strada piuttosto che essere oggetto di un normale lavoro biografico. Quindi quello che abbiamo fatto è stato girare il film apparentemente su di lui, ma facendogli fare le cose che ci eravamo ripromessi di fare nel documentario. […] La mia domanda centrale era: un film può essere politicamente utile? Può un film causare uno sconvolgimento sociale? Può un film spingere le persone a recitare? Il cinema è davvero una tale forza di cambiamento come si è sempre creduto, o può solo introdurre nuove abitudini, nuove mode, nuove ossessioni?”.
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