D’Anolfi e Parenti: “Le piccole meduse del cinema di ricerca”

In concorso Spira mirabilis, il film della coppia di documentaristi, che affronta il tema dell'immortalità. E gli autori polemizzano: "Non ci rivolgiamo al pubblico, ma agli spettatori pensanti"


VENEZIA – E’ una summa della loro poetica, Spira mirabilis, il documentario – ma sarebbe più giusto parlare di un film tout court – di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, in concorso alla Mostra. Primo italiano a scendere in competizione, è un film che utilizza un linguaggio e uno stile (niente dialoghi, grande attenzione ai suoni, tempi dilatati, scrittura circolare) apparso arduo ad alcuni perché presuppone il desiderio di lasciarsi andare a una visione emotiva e mai prosaica. Come nei precedenti lavori della coppia (tra cui Materia oscura, Il castello e L’infinita fabbrica del Duomo) anche qui siamo di fronte a un cinema di ricerca che lavora sul tempo come fattore soggettivo ma anche creativo per approfondire concetti filosofici. In questo caso l’immortalità o la permanenza. A partire da una suggestione, la piccola medusa Turritopsis che si rigenera da sola e che un singolare scienziato giapponese, palombaro e cantante di karaoke, Shin Kubota, studia da sempre (al Lido è venuto con alcuni esemplari in un’ampolla). Tornano poi le statue del Duomo di Milano, erose dallo smog e continuamente sostituite da nuovi rifacimenti. Quindi incontriamo due inventori svizzeri, Felix Rohner e Sabina Schaerer, che costruiscono a mano uno strumento ancestrale, importato dalla tradizione caraibica, capace di resuscitare i moribondi con le sue sottili armonie. Ecco poi gli sciamani Lakota che resistono all’annientamento dai tempi di Wounded Knee. Sono quattro elementi – acqua, terra, aria e fuoco – a cui se ne aggiunge un quinto, l’etere, rappresentato dalla voce di Marina Vlady, attrice di Godard e Ferreri, che in un cinema fantasma legge brani da L’immortale di Borges. Autoprodotto con Montmorency e Lomotion, insieme a Rai Cinema (in particolare grazie alla sensibilità di Paola Malanga) e a coproduttori svizzeri, Spira mirabilis uscirà nelle sale il 22 settembre con I Wonder Pictures. 

Perché avete scelto di parlare di immortalità e di armonia dopo l’esperienza inquietante e drammatica di Materia oscura e perché avete recuperato i materiali visivi de L’Infinita fabbrica del Duomo
D’Anolfi. Iniziamo sempre il nuovo film dove finisce il precedente. Materia oscura è un lavoro sulla stupidità umana che ci ha lasciato con un grande sentimento di tristezza. Volevamo a questo punto indagare la parte migliore degli uomini. Questi non sono tempi in cui stare molto allegri, ma c’è una minoranza resistente in questo mondo e in ognuno di noi. Abbiamo così provato a eliminare il tema del conflitto col potere, che domina tutto il nostro cinema e che comunque torna nella parte in cui parliamo della comunità dei Lakota. Spira mirabilis è in continuità con la nostra ricerca precedente iniziata dieci anni fa.

Qual è stata la prima scintilla di questo viaggio anche attraverso i continenti?

Parenti. Abbiamo letto sul New York Times la storia della medusa immortale Turritopsis e che è scattata la voglia di raccontare chi aspira a qualcosa di superiore. Consideriamo l’immortalità come resistenza, rinascita, permanenza, rigenerazione… Tutte le storie del film sono connesse e declinano l’aspirazione a lasciare qualcosa di migliore.

La storia di Felix e Sabina come è arrivata?

D’Anolfi. Abbiamo sentito in strada questo suono e l’abbiamo seguito scoprendo questo strumento creato da Felix e Sabina, uno strumento che loro ritengono pericoloso e che quindi non producono più. Sono due alchimisti, non sono interessati al denaro e hanno deciso di non venderlo più nonostante abbiano ricevuto almeno ventimila lettere da tutto il mondo da persone che lo chiedevano, madri con figli eroinomani, moribondi, capi di stato. Anche noi abbiamo scritto mandandogli i nostri film precedenti e loro ci hanno invitato a Berna.

E il Duomo? Ne avevate già parlato con L’infinita fabbrica.
Parenti. Noi viviamo a Milano e il Duomo è sempre sotto i nostri occhi. Ma se si riescono a porre delle domande diverse, anche le cose che conosciamo meglio diventano interessanti. Abbiamo scoperto questo cimitero delle statue che per noi è diventato un piccolo purgatorio. Gli indiani Lakota rappresentano la resistenza all’essere massificati, tutti uguali. L’etere infine è il cinema.

Questo è il vostro primo film che avrà una distribuzione in sala vera e propria, anche se il vostro lavoro è ben conosciuto nei festival di tutto il mondo. Temete che possa faticare a incontrare il pubblico?

D’Anolfi. Crediamo nelle persone, persone pensanti che hanno uno sguardo critico sulla realtà. Non crediamo nel cinema che cerca un’identificazione col pubblico. Ma le persone spesso sono migliori di quanto si pensi, più preparate. In Italia ci sono circa 2.000 schermi e all’80% programmano gli stessi film. Questo è appiattimento culturale. Il cinema è negli occhi di chi guarda. 

Un tempo non sareste arrivati in concorso alla Mostra del cinema, piuttosto in qualche sezione collaterale dedicata alla sperimentazione. Ma in questi ultimi anni sono successe molte cose, tra cui il Leone d’oro a Sacro GRA. Cosa è cambiato nella percezione che il sistema cinema ha del lavoro di ricerca?

D’Anolfi. Martina ed io lavoriamo insieme da dieci anni. In questo tempo la vera innovazione è avvenuta nel cinema di ricerca. Barbera e i selezionatori hanno avuto coraggio a sceglierci. Siamo degli ufo, delle piccole meduse. Piccoli perché siamo artigiani, facciamo film da soli: io filmo, Marina prende il suono, Massimo Mariani è il nostro unico collaboratore. Facciamo così perché è il metodo di lavoro che ci piace, non perché non abbiamo risorse, anche se il film è costato 120mila euro. Siamo artigiani che cercano e ricercano. 

Come avete strutturato i materiali?
D’Anolfi. Nel film sul Duomo abbiamo fatto recitare la pietra e le statue. Kubita è il singolo che ogni giorno osserva e interroga la sua medusa. Poi c’è una coppia, Felix e Sabina, in cui ci siamo rispecchiati. Quindi la comunità Lakota. Infine il fantasma etereo. Credo che sia un film semplice. All’inizio c’è smarrimento poi, pian piano, le cose cominciano a prendere una direzione. Certo, o accetti la sfida oppure non la accetti. 

Il rapporto con il tempo è centrale in molti sensi: perché vi prendete tempi lunghi per realizzare un progetto, addirittura tre anni, e perché chiedete allo spettatore di entrare in una dimensione temporale diversa da quella a cui è abituato, che è veloce, frammentata.
Parenti. Avere tempi lunghi in un mondo che va molto veloce e che ti chiede di conformarti è fondamentale. E’ un un atto politico.

Quali sono i vostri modelli? 

D’Anolfi. Amiamo Billy Wilder e Lubitsch, Chris Marker e Herzog. Senza Dreyer non avrei fatto il cinema. Ma non crediamo nelle distinzioni di genere e in un solo cinema.

Leggi anche l’articolo su Materia oscura al Forum di Berlino 2013


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