VENEZIA – La memoria, il buio, la guerra. Il film di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (Spira Mirabilis era in Concorso alla 73ma Mostra), Guerra e Pace, distribuito da Istituto Luce Cinecittà, apre scegliendo una sequenza che alterna tre soggetti, poi colonne del film, di matrice italiana, ma una co-produzione internazionale – Montmorency Film con Rai Cinema e Lomotion, con Schweizer Radio und Fernsehen / SRG SSR – in Concorso nella sezione Orizzonti della Mostra.
La guerra, si sa, ha purtroppo una storia senza tempo, esiste da sempre, mentre il cinema nasceva a fine ‘800: sarebbe però passato poco tempo perché i due s’incontrassero per la prima volta. Era il 1911, in occasione dell’invasione italiana in Libia, anche se “la prima guerra filmata è la guerra in Crimea: sistematicamente ripresa come news e mandata al cinema. E non la guerra dell’Italia in Libia. Le immagini dello sbarco dei soldati ci sembrava avessero una corrispondenza con l’attualità e Luce, Archivio per eccellenza, conserva queste testimonianze. L’Archivio Luce è stato il luogo della ricerca, la distribuzione è stata una conseguenza successiva”, spiegano i due documentaristi.
Questa “storia d’amore” – quella tra cinema e guerra – continua fino ai giorni nostri e la coppia di autori sceglie un racconto visivo composto di sequenze riprese dai pionieri del cinema e sguardi contemporanei e tecnologici di persone che da ogni angolo della Terra riprendono con un telefono cellulare, rinnovando – purtroppo – il rapporto sempre vivo tra guerra e cinema. “Il tarlo che ci ha accompagnato è stato: perché conservare tante immagini di guerra se poi non si smette di farla?”. Il film ha provato a dare una risposta con l’atto del “conservare per ricordare. Gli archivi sono pozzi senza fine, e sono simbolo della memoria: il nostro film, in modo non didascalico, affronta un secolo di Storia”.
“Eravamo a Berna, cinque anni fa, e camminando nel quartiere delle ambasciate c’era venuto in mente di fare un film sulla diplomazia, domandandoci il suo valore attuale. Ci siamo chiesti se il cinema potesse essere un elemento di mediazione”, continuano D’Anolfi e Parenti, che spiegano anche come il regista e fotografo polacco Bolesław Matuszewski sia “stato punto imprescindibile per il film” perché, guardando un suo archivio, fu in grado di dimostrare il contrario di un credo popolarmente diffuso in riferimento ad un caso diplomatico che vedeva coinvolto Bismarck. “Diplomazia e mediazione hanno subito molto avuto a che fare con gli archivi, come la conservazione della memoria, motivo principale per cui ci siamo approcciati al Ministero degli Esteri, con un permesso complesso da ottenere perché non erano mai entrate le telecamere. Inoltre, Roberto Toscano, ex ambasciatore, in Cile nel ’73, ci ha aiutati per capire quel mondo dall’interno, pur senza filmarlo direttamente. Altra cosa potentissima, per noi un fatto sentimentale, la testimonianza di Blasetti, per cui noi abbiamo un debole”.
I documentaristi ci mostrano mani, occhi, lenti, guanti, pinze che “maneggiano” la guerra (al cinema), frammenti di scatti fotografici del passato e stringhe di pellicola che angeli custodi degli archivi storici curano e conservano, tenendo in vita un racconto che è eredità e vissuto sociale, ma non di una storia solamente di un tempo precedente, piuttosto quanto mai attuale, e attualizzata dal film, come nelle sequenze degli episodi affrontati in tempo reale dalle Unità di Crisi ministeriali.
Guerra e Pace ha impegnato “tre anni e mezzo di lavorazione, e s’è sempre intitolato così: la Farnesina era preoccupata che il titolo potesse rimandare alla diplomazia ottocentesca, ‘un po’ parruccona’. Alfano, Moavero, Di Maio sono stati i tre ministri degli Esteri che nel frattempo si sono succeduti, ma la Segreteria Generale è rimasta la stessa”, raccontano ancora, entusiasti del proprio mestiere di documentaristi, quando confidano: “amiamo i documentari perché sono una sorpresa continua, una scoperta”.
Guerra e pace riflette sull’essenza della Storia, sulle conseguenze della guerra, e su quanto il custodire la memoria possa essere un’eredità sociale utile a non ripetere, certamente a non dimenticare.
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