Così Mary Shelley partorì Frankenstein

Mary Shelley Un amore immortale della regista saudita Haifaa Al-Mansour, in uscita con Notorious Pictures dal 29 agosto, ci propone un ritratto appassionato della scrittrice


Haifaa Al-Mansour è sembrata la persona giusta per raccontare la storia di Mary Shelley, l’autrice di un capolavoro intramontabile della letteratura fantastica (e del cinema) come Frankenstein or the Modern Prometheus (1818) ma soprattutto la donna costretta a scontrarsi contro il pregiudizio di genere, tanto da poter dare alle stampe il suo libro solo in forma anonima e sotto l’egida di Percy Bysshe Shelley, il poeta che amava e che sarebbe diventato suo marito passando attraverso una tempestosa relazione fuori da tutti i canoni dell’epoca (siamo nella prima metà dell’Ottocento). Una storia di esclusione e di lotta dolorosa per emergere dalle pastoie di una società arretrata e sessista, come quella che la regista saudita, pioniera del cinema nel suo paese e prima donna dietro la macchina da presa a quelle latitudini, aveva raccontato nel suo notevole esordio La bicicletta verde.

Mary Shelley Un amore immortale, in uscita con Notorious Pictures dal 29 agosto, sotto la patina edulcorata della love story romantica – l’aggettivo è più che mai appropriato dato il contesto – rappresenta quindi un ritratto femminile che merita una visione non disattenta e possibilmente scevra da pregiudizi. Una storia, tra l’altro, di artisti giovanissimi e ribelli: Mary aveva appena 18 anni quando compose il suo capolavoro e poco più adulti erano gli altri protagonisti della scena letteraria di cui faceva parte. Incontriamo la giovane e umbratile Mary sulla tomba di sua madre, la filosofa Mary Wollstonecraft, protofemminista morta quando la figlia era venuta al mondo da appena dieci giorni: la ragazza va lì a cercare conforto alla sua solitudine alimentando la sua passione per le storie gotiche e i fantasmi che sono per lei – così segnata dal lutto – del tutto reali: “c’è qualcosa che lavora nella mia anima che non capisco”, dice di sé. Mary vive con il padre, il filosofo illuminista William Godwin, che gestisce anche una casa editrice, e con la matrigna e l’inseparabile sorellastra Claire. Il genitore l’ha incoraggiata agli studi e ad essere se stessa ma non fino al punto da accettare il suo legame con Percy Bysshe Shelley, sposato con prole. I due ragazzi fuggono insieme seguiti da Claire con cui si instaura un singolare e ambiguo triangolo.

La sceneggiatura di Emma Jensen si dilunga nel descrivere la vita dissoluta del poeta anticonformista in particolare l’episodio – storicamente accertato – del soggiorno in Svizzera nella villa di Lord Byron, dove verrà lanciata come gioco di società per reagire alla pioggia insistente la sfida di scrivere una storia gotica. Tra gli ospiti anche il dottor John Polidori, che sarà una delle fonti di ispirazione del Frankenstein, con le sue conversazioni, insieme agli studi sul galvanismo e la possibilità di far rivivere i cadaveri a cui Mary aveva avuto accesso. Ma la radice di uno dei romanzi più amati anche dal cinema era soprattutto la sua infinita e drammatica solitudine e le perdite subìte, che la perseguitavano come l’incubo del celebre dipinto di Fussli, tra cui quella della morte di una bambina ancora in fasce nata dall’amore con l’egocentrico e infantile Percy.

“Il film è ambientato duecento anni fa, ma credo che si ci possa relazionare anche oggi. Stavano spingendo i confini, rivoluzionando i costumi, c’è qualcosa in cui ogni ragazzo di 18 o 19 anni si rispecchierà”, spiega la regista che ha chiamato interpreti anagraficamente vicini ai suoi personaggi, a partire dalla protagonista, la ventenne americana Elle Fanning, sorella minore di Dakota, vista in The Neon Demon di Nicolas Winding Refn e nei due Maleficent nel ruolo della principessa Aurora. Un po’ di maniera Douglas Booth e Tom Sturridge, rispettivamente Percy e Byron.

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24 Agosto 2018

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