Corti italiani, il cinema che non ti aspetti


BERLINO – “Ho sempre raccontato storie che avevano al centro adolescenti o bambini, ma stavolta ero perplesso: non sapevo se ero in grado di raccontare i ragazzi non udenti”. Invece, poi, l’esperimento al pugliese Vito Palmieri è riuscito benissimo, visto che con questo suo settimo cortometraggio, Matilde, è approdato all’agognata Berlinale, nella sezione Generation. Commissionato e prodotto da Agfa/Fiadda (Associazione genitori con figli audiolesi), il film breve di Palmieri racconta con dolcezza di una bambina non udente che si divide tra la scuola – dove guarda perplessa il suo insegnante baffuto -, i campi di tennis – in cui segue affascinata gli scambi – e gli strumenti da parrucchiera della madre. Tutti elementi che la aiuteranno a trovare una soluzione al problema che la turba tra i banchi di scuola, in una scena finale poetica chiosata dalla bellissima immagine di tavoli e sedie con delle palle da tennis come “scarpe”.

 

“Il soggetto è nato dalle testimonianze dei ragazzi e dei genitori dell’Agfa: ne ho messe insieme due diverse in un’unica storia. Matilde è il vero nome della bambina protagonista, così come tutti gli interpreti di questo corto sono sordi che non fanno gli attori di professione e recitavano per la prima volta”. Scritto, girato e montato in due settimane con una Canon 5D, Matilde arriva in terra tedesca oltre tutte le aspettative del regista, che alla Berlinale puntava da sempre. “Ora mi stanno chiedendo il film tanti festival del mondo – dice soddisfatto – Quello che so è che lo mostrerò sempre sottotitolato, perché mi interessa molto stimolare la visione di film con i sottotitoli per i non udenti”.

 

E’ invece un approdo quasi naturale il festival di Berlino per il lavoro di Mario Rizzi, Al-Intithar visto che l’autore, pur se italiano, vive e lavora nella capitale tedesca. Ha un respiro assolutamente internazionale questo mediometraggio presentato in Berlinale Shorts (30′) che costituisce la prima parte di una trilogia che comporrà il progetto Bayt (Casa), finanziato dalla Sharjah Art Foundation e dedicato all’emergere di nuove forme di coscienza civile in Malesia, Tunisia, Egitto, Bahrein e Siria. Un’esplorazione della fine del post-colonialismo e dell’impatto delle grandi trasformazioni in atto sull’identità di questi popoli.

Girato a Camp Zaatari in Giordania, a 7 km dalla frontiera e 13 km dalla più vicina città, nel corso di sette settimane, il film si confronta con la realtà dei profughi siriani che vivono in “attesa” (questo il significato del titolo). Ma Rizzi, attivo nella videoarte, non percorre la strada del reportage o del film di denuncia, piuttosto lascia parlare le immagini senza forzature di montaggio concentrandosi su alcune figure femminili e in particolare su una giovane vedova scelta tra i circa 45.000 profughi che vivono nel campo e ripresa nei vari momenti della vita quotidiana in questa “casa” provvisoria a cui dedica ogni sua cura.

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