Con quasi trenta lavori visti in due giorni, non deve essere stato compito facile per la giuria presieduta da Paolo Benvenuti decidere a chi assegnare i premi.
E non deve essere stato facile perché al termine delle proiezioni era complicato ritrovare un ordine, compiere delle distinzioni, effettuare scelte. Ma, per fortuna, è dal disordine che nasce l’ordine, e questa confusione è non solo necessaria ma è anche la forza del concorso e dell’intero progetto di Bellaria.
Lavori molto diversi tra loro, perché le immagini parlano lingue differenti, raccontano universi lontanissimi, che si duplicano o si danno forza reciproca, in un corto circuito dal quale si può solo restare elettrizzati. Ed il “concorso anteprima” è stato un lungo immergersi in questi linguaggi, un abbandonarsi ai flussi degli occhi, una lunga camera oscura nella quale era possibile scorgere immagini, idee, pensieri inaspettati.
Il corto che ha vinto si intitola Hanna, lo ha diretto Vinicio Basile, animando, con i suoi pupazzi di plastilina, uno scorcio di una strada in una indefinita città campana. Una storia semplice (una prostituta che riesce grazie alla musica a vivere un’altra dimensione e ad affrontare il suo duro mestiere, popolato di camionisti disgustosi e di impiegati inesperti ed ugualmente disgustosi), con un finale aperto in cui una banda musicale si appresta a intraprendere una processione in onore della Madonna, girata con incredibile maestria e passione artigiana. Ma ha vinto anche il documentario Siciliatunisia, diretto da Anselmo De Filippis (che esce dalla scuola di Olmi) e da Stefano Savona, che parlando delle emigrazioni degli italiani a Tunisi negli anni del fascismo, e dei tunisini a Mazara negli anni della globalizzazione, mette a raffronto persone, luoghi e lingue per raccontare un non luogo totale, nel quale non è possibile distinguere un’identità legata alla città dove si è nati o all’educazione che si è ricevuta.
L’unica differenza è nel singolo, l’unica identità possibile è quella individuale. E di identità individuali parla il terzo dei lavori premiati, Paolo e Francesco, anche qui sulle soglie del documentario, intervista a una coppia di omosessuali, uno dei quali malato di Aids. Non esistono domande stupide, esistono solo risposte idiote, diceva Godard, ma il corto lascia perplessi per il tono nel quale le domande vengono poste, funzionale a raccontare un insieme di relazioni (tra i due amanti, tra l’intervistatore e ciascuno degli intervistati) che, però, non apre nessuna strada a chi guarda lo schermo.
Sulla falsa riga del documentario si sono visti altri lavori: The Cannoli Line realizzato da Alessandra Tantillo su un italo americano che ha fatto fortuna come pasticcere, ma che rimpiange che i figli non parlino più italiano e non si sentano più siciliani; o Isbàm di Giorgio Carella e Paolo Cognetti, nel quale, seguendo le indicazioni de “L’arte della guerra” di Sun Tsu, si racconta di come si possa far nascere “coscienza sociale” in una piccola banda di Cinisello Balsamo, tutta dedita al sesso facile e ai motorini, ma con in nuce la capacità e la forza di creare luoghi che siano realizzazione di sogni individuali e collettivi.
Dal documentario alla fiction, invece, Jerome Bellavista che, con Quid pro quo, narra proprio di quello sguardo superficiale sulle cose sul quale cadono anche gli approcci superficialmente antropologici, e riesce ad evitare la facile trappola del “finale barzelletta” proprio per un gusto dello sguardo totale che sembra intravedersi nel suo lavoro.
E sguardo totale si nota anche in Psychica agonia, delirio anarco-lisergico, tra stupri, manifestazioni degli anni Settanta e vendette e, soprattutto, in Suan di Valentina Bersiga (nome da ricordare), già vincitrice di Spazio Italia a Torino, e visionaria autrice di una storia sulla memoria e la sua perdita, sulla paura dei maschi e su un mondo, dominato dalla visione, nel quale gli occhi non hanno più il potere assoluto di donare esperienza.
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