TORINO – La storia di un figlio ossessionato dalla figura del padre, prigioniero di una pesante eredità di colpe – forse la peggiore delle quali è quella di essere sopravvissuti allo sterminio – autoescluso dalla propria comunità, incapace persino di uscire dal suo appartamento, tanto che anche camminare per un isolato attorno alla sua casa, insieme alla devota moglie, è stata per lui un’impresa. Wolf di Claudio Giovannesi, al TFF (Italiana.doc) è una straordinaria testimonianza che nasce da un’idea di David Meghnagi, psicoanalista esperto nella cura dei sopravvissuti al lager, storico e studioso dell’ebraismo. Meghnagi ha proposto al Luce Cinecittà (che ha coprodotto e distribuirà l’opera) di realizzare un film dal dialogo con Wolf Murmelstein, bambino di Terezin, figlio del rabbino “traditore” Benjamin Murmelstein, il bambino con cui nessuno voleva giocare. Il padre fu chiamato dai nazisti a dirigere il consiglio degli anziani, in pratica a gestire il ghetto, prendendo decisioni terribili, come stilare le liste di coloro che dovevano partire verso Auschwitz. Considerato da tutti un collaborazionista, l’ultimo degli ingiusti, come si definiva lui stesso, venne processato dopo la guerra. Fu assolto, si trasferì a Roma con la famiglia, non fu mai riammesso nella comunità, tanto che alla sua morte, nell’89, gli venne negato il rito funebre ed è sepolto nel cimitero ebraico di Roma in una tomba lontana dagli sguardi. Abbiamo chiesto a Giovannesi, 35 anni, autore di film come Fratelli d’Italia e Alì ha gli occhi azzurri, di parlarci di questo notevole progetto.
Conosceva la storia di Benjamin Murmelstein?
Non ne sapevo nulla. Mi è stato proposto di lavorare a questo progetto da Luce Cinecittà, con cui collaboro fin dai miei primi lavori e che ha sempre avuto il coraggio di portare i documentari in sala, e da Vivo Film ed è stato David Meghnagi a parlarmi di Wolf e di suo padre. È questo rapporto ad avermi colpito, mi permetteva di approfondire il discorso sulle colpe dei padri che ricadono sui figli e sul significato della colpa in assenza di libero arbitrio. Non lo definirei neanche un documentario, ma una drammaturgia. Anche Fratelli d’italia era un documentario in cui c’era il racconto di un forte conflitto, in quel caso tra i personaggi, in questo caso è un conflitto interiore.
Ha visto il film di Claude Lanzmann, “L’ultimo degli ingiusti”, dedicato alla figura di Benjamin Murmelstein?
L’ho visto dopo aver girato il mio film e penso che siano due lavori completamente diversi. Lanzmann è un ebreo, è stato coinvolto nella Shoah e il suo è un film a tesi, un saggio in cui volutamente riabilita Murmelstein. A me non interessava parlare della Shoah: l’hanno fatto molto bene registi come Polanski con Il pianista o Spielberg con Schindler’s List. E neppure potevo fare un film sulla propaganda, come in un primo momento avevo pensato. Esiste già un documentario del 2002, che è stato candidato all’Oscar, Prisoner of Paradise di Malcolm Clarke e Stuart Sender, che racconta la storia di Kurt Gerron, il cabarettista ebreo tedesco deportato a Terezin e costretto dai nazisti a girare un film di propaganda. Tra l’altro è un film bellissimo, non si poteva fare di meglio.
Il suo film ha una struttura doppia. La prima parte dedicata al padre, la seconda, sicuramente la più emozionante, al figlio. Che idea si è fatto di Benjamin?
Benjamin viene raccontato dal momento in cui i nazisti l’hanno messo a capo del ghetto di Terezin fino alle accuse di collaborazionismo. È un personaggio complesso, fuori dalla retorica vittima carnefice. Esempio perfetto di quella che Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, chiama la zona grigia riferendosi agli ebrei che, per scelta o costrizione, hanno collaborato con la macchina dello sterminio nazista. Per raccontare Benjamin avevo a disposizione il suo libro autobiografico Terezin – il ghetto modello di Eichmann e ho deciso di usare solo i film di finzione su di lui: Transport z raje di Zbynek Brynych del 1962 e War and Remembrance di Dan Curtis del 1988. In entrambi è rappresentato come un traditore, perché questa è l’opinione comune.
E il figlio?
Nel rapporto tra padre e figlio è contenuto il paradosso che sta alla base della narrazione. Come avevo già sperimentato in Fratelli d’Italia o in Alì ha gli occhi azzurri, dove c’è un giovane arabo che vuole essere italiano, Wolf ha un forte desiderio di riabilitare la figura paterna ma questo desiderio ossessivo ha generato in lui un sentimento di autoemarginazione che lo ha portato al totale isolamento. Il paradosso è che l’esistenza di Wolf, che ha 74 anni, è ormai fondata solo sulla memoria del proprio padre, sull’osservanza al comandamento “onora il padre e la madre”, e quindi solo sul proprio trauma. Ecco perché non può essere pacificato perché se lo fosse non gli resterebbe più niente.
Il ritratto di Wolf è costruito attraverso il dialogo terapeutico con Meghnagi
Ovviamente non potevo filmare una seduta di psicoanalisi, che del resto Wolf rifiuta, ma quello che si vede nel film è un’elaborazione che passa attraverso il tentativo di farlo uscire dall’isolamento e metterlo in contatto con gli altri. Così avvengono i colloqui via skype con altri sopravvissuti, e poi l’incontro con il rabbino Di Segni. Lui non esce mai di casa e ci sono volute settimane per portarlo alla sinagoga, dove poi ha rifiutato di entrare tanto che il rabbino l’ha incontrato per la strada. Invece non è stato possibile convincerlo a visitare la tomba del padre.
Lei che idea si è fatta di Benjamin Murmelstein, che Wolf difende al punto da negare che fosse lui a stilare le liste dei deportati?
Sicuramente non è stato un martire, ma la verità resta una grande incognita. In particolare non sappiamo se fosse a conoscenza della destinazione dei deportati, se cioè sapesse che andavano verso lo sterminio.
Sta lavorando a un nuovo film?
Sì, ancora una volta una storia metà tra realtà e finzione con una ragazza adolescente come protagonista. Sarà prodotto da Fabrizio Mosca con i francesi.
Le date decise dai vertici del Museo Nazionale del Cinema e dalla Direzione del Festival, d'intesa con la Regione Piemonte, la Città di Torino e la Provincia di Torino
Da oggi al 4 dicembre i cinema Alcazar, Greenwich e Nuovo Sacher ospiteranno una selezione di dieci titoli
La 31esima edizione del Torino Film Festival si è chiusa con un incasso complessivo di 267mila euro e 92mila presenze in sala
L'ad di Rai Cinema commenta il premio del pubblico andato a La mafia uccide solo d'estate al TFF