Africa come Italia? Di fronte all’invasione hollywoodiana sì, anche se noi, qualche volta, riusciamo a strappare il botteghino natalizio alla concorrenza d’oltreoceano.
Ecco perché c’è qualcosa di interessante da imparare anche da un festival assolutamente terzomondista come Cinemamed. Lì si parla di una situazione da Terzo mondo “vero”: l’Africa, soprattutto quella nera, è stretta fra la colonizzazione ad alto tasso di spettacolarità del cinema statunitense e la necessità di guardare fuori, alla Francia, alla Svizzera (con la fondazione Montecinemaverità), in certa misura anche all’Italia (con Fabrica e Marco Müller) onde trovare mezzi per produrre un cinema proprio. Che però si trova costretto a fare i conti con i gusti, i sogni e la voglia di immagini esotiche dell’Occidente ex colonialista, con cui intreccia pericolose complicità.
È l’opinione di Ferid Boughedir, regista tunisino, giornalista e storico del cinema, da poco in Italia per il citato festival di cinema arabo-mediterraneo, che si conclude oggi a Palermo. Boughedir conia una definizione ironica per il cinema a cui piace piacere (e vincere a Cannes): la sindrome della Palma d’oro, o Palmed’orite.
Emblematico, a questo proposito, secondo Boughedir, il percorso del regista maliano Souleymane Cissé, che da Le vent del 1982, storia di una rivolta universitaria, con una sola toccante scena di sciamanesimo rurale, passando per Yeelen, fino a Waati, del ’95, impara a confezionare film in cui l’elemento magico, e dunque esotico, ha sempre più peso, assecondando così il gusto dei critici della Croisette. Che nell’87 gli regalano il Premio della giuria, ma poi restano delusi proprio dalla mancanza di “autenticità” della sua produzione più recente. A questo punto, però, Cannes ha dimostrato a se stessa e al mondo di essere un festival veramente internazionale, e l’Africa nera può anche passare di moda.
“Non passa mai di moda a Hollywood, dagli anni ’50 ad oggi, l’imperialismo”. Parola datata nei lessici del nuovo millennio, ma è quella che impiega con cura Ferid Boughedir per descrivere le strategie commerciali e ideologiche impegnate dalle major per assicurarsi nella sua interezza il mercato di quei Paesi che non sono riusciti, prima della metà del Novecento, a sviluppare strutture produttive e distributive interne di portata adeguata.
Spiega Boughedir: “Fino al secondo dopoguerra, più o meno, Hollywood recupera tranquillamente il costo di un film sul mercato interno e considera quello internazionale in termini di surplus. Poi le cose cambiano. Cresce l’importanza economica dell’industria cinema e quella ideologica del modello culturale proposto dai film americani. E mantenere il predominio sui mercati esteri diventa assolutamente vitale”. Il regista tunisino è una vera miniera di aneddoti su come Hollywood, d’intesa con il governo, abbia saputo adoperare una vasta gamma di mezzi, dal ricatto al boicottaggio, contro qualsiasi iniziativa legislativa di tipo protezionistico nei Paesi del Maghreb e dell’Africa nera. La lista è lunga: Tunisia, Senegal, Burkina Faso… un Paese, quest’ultimo, che conta solo sei sale. Un numero irrisorio, un dominio trascurabile. Ma sui principi non si discute.
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