Sul corpo, sul fascino di una voce ardita, profonda, su gesti nobili puntò Vittorio Gassamn, allievo di Costa, all’Accademia, quando la dirigeva Silvio D’Amico. La passione per i classici lo spinse subito verso Amleto ed Edipo Re, poi Tieste di Seneca (1950-52) con risultati alti e vibranti. Al pubblico di quegli anni, che gremiva le grandi sale di Roma e Milano o l’anfiteatro di Siracusa, quella presenza esuberante e l’amore per la forma parvero surrogati importanti di libertà e bellezza, che non riuscivano ad affermarsi nel paese.
E Gassamn divenne amico di Visconti e Flaiano, di De Feo e Squarzina, che lo stimolarono verso una sensibilità contemporanea che s’aprisse alla critica, all’ironia, anche al grottesco: da Tre quarti di luna di Squarzina a I tromboni di Zardi a Un marziano di Flaiano.
Fu questo(forse il ’60) il momento di maggior creatività di Gassman attore e impresario: girava col tendone del Teatro popolare offrendo, a sere alterne, Adelchi del Manzoni e Il marziano dello scrittore di Pescara. Qualcosa di audacissimo anche per il pubblico che lo ammirava ma certo lo preferì in Kean da Dumas o in Otello, all’Eliseo, con Salvo Randone coprotagonista (una sera Otello, l’altra Iago, all’uso inglese) e una indimenticabile Anna Maria Ferrero, Desdemona.
Tornato sul palcoscenico dopo quindici anni, vennero Beckett e Pirandello, Kafka e Pasolini, Melville, oltre a testi propri eccetera.
Mano mano, aveva scoperto (grazie al cinema e alla propria vita) una parola meno colma e risonante, una più realistica intuizione degli altri, gesti più misurati. Fascino non ne perse mai: la capacità di scrutare il pubblico, di interpretarne l’insoddisfazione: quella fatica di vivere in un paese non adatto a grandi sentimenti, a grandi imprese. Neppur quella di creare una società tollerante, giusta, rispettosa della creazione d’arte.
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