Christopher Lambert: “Il mio rimpianto? Non aver lavorato con Sergio Leone”

All'Italian Pavilion berlinese abbiamo incontrato Christopher Lambert che in questa intervista rivela: "Cinecittà è ancora una leggenda, mi fa pensare al mio regista preferito di sempre, Sergio Leone"


BERLINO – All’Italian Pavilion dell’European Film Market della 73ma Berlinale arriva un ospite speciale, Christopher Lambert. Accompagnato dal produttore Gianluca Varriale di Vargo e dal regista Alessandro Riccardi con cui ha girato il thriller It’s not over, annuncia: “Faremo un altro film insieme, non vedo l’ora. Spero sia un altro thriller psicologico, è il mio genere preferito”.

Perché ama tanto i thriller psicologici? 

Trovo interessante gli intrighi nella storia, quel non sapere mai come andrà a finire, li preferisco di gran lunga ad altri generi cinematografici.

Ieri Marco Ferreri e Gabriele Salvatores, oggi Louis Nero, Alberto Gelpi e Alessandro Riccardi: come si trova ad essere diretto da registi italiani?

Amo da sempre la sensibilità dei vostri autori, la cura nella realizzazione dei progetti e lo spessore umano. 

Siamo all’Italian Pavilion: che cosa rappresenta per lei Cinecittà?

La leggenda che era ed è ancora. Mi fa pensare al mio regista preferito di sempre, Sergio Leone.

Non avete mai lavorato insieme…

Non abbiamo fatto in tempo: mi parlava del film 900 giorni (Leningrado, ndr) da interpretare, dopo sei mesi è morto. Ad oggi resta il mio più grande rimpianto. 

Come sceglie oggi i film da interpretare?

Devo credere alla storia che per me è sempre l’elemento fondamentale. Leggo personalmente ogni singola sceneggiatura che mi arriva, mi stupisce positivamente che dopo oltre 80 film ancora abbiano voglia di lavorare con me.

Come si costruisce una carriera duratura?

Film dopo film. Ho iniziato a vent’anni, ma il mio primo grande film è stato Greystoke – La leggenda di Tarzan il signore delle scimmie. Quando riesci a entrare in un progetto del genere dopo, se va bene com’è capitato a me, è tutto in discesa.

Poi è arrivato l’iconico Highlander.

L’ho amato subito. Per me era un film romantico, mai avrei immaginato che sarebbe diventato un cult movie multigenerazionale. Deve aver colpito la combinazione tra una buona storia, un grande talento alla regia e la musica pazzesca dei Queen.

Cosa le ha lasciato quel personaggio, dopo decenni?

Fierezza, la stessa con cui rispondo da oltre trent’anni a tutti quelli che per strada mi chiamano Highlander. Alcuni avranno dodici anni, da non crederci.

Individua un suo erede tra i giovani attori?

Ne vedo tanti bravi, ma non penso mai al mio erede. Quando vedo i film di supereroi penso che potrebbero essere dei nuovi Highlander, peccato non abbiano lo stesso cuore. Sono film di pura azione, dove l’amore è un accessorio opzionale, in Highlander era tutto.

Ha in uscita, tra i vari progetti, Stop the Bullet, sulla guerra nei Balcani. Che cosa può anticiparci?

È un film di mafia, racconta la guerra nei Balcani focalizzandosi sulla compravendita delle armi che gestisco io, come boss criminale in stile “Padrino”.

Ha dieci progetti in preparazione: dove trova il tempo?

Pianifico a tutto spiano. Tra un ciak e l’altro organizzo anche le mie altre attività, dalla ristorazione alle start-up che seguo. Amo il cinema sopra ogni cosa, ma trovo il tempo per fare tutto: se non sono impegnato sono perso.

È preoccupato per il futuro del cinema?

Credo che stia cambiando e il cambiamento non va combattuto ma accompagnato. Le piattaforme danno la chance a piccoli film di circolare e farsi vedere in tutto il mondo. Mi dispiace per le sale, credo che in futuro diventeranno maxi strutture con migliaia di posti e ogni proiezione sarà un grande evento.

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