Una fotografia, in bianco in nero, primi anni ’30, Marcello – bambino, dieci anni nemmeno – pantaloni corti, bretelle, mani in tasca, in piedi accanto alla mamma, seduta con in braccio il fratellino Ruggero: un istante d’infanzia dà il La al dialogo affettuoso, ironico, di memoria famigliare e cinematografica, che la Festa del Cinema di Roma ha messo in agenda con Chiara Mastroianni, nel centenario dalla nascita del papà Marcello. La prima cosa che nota lei, guardando lo scatto, sono “le mani nelle tasche, come spesso ha tenuto poi nella vita: è un’attitudine in cui lo riconosco; poi c’è anche suo fratello Ruggero, grande montatore di cinema. In questa famiglia, una casa semplice, povera, in un tempo difficile, nulla avrebbe detto quello che poi è stato il destino, anzi le scelte, che hanno permesso, venendo dal nulla, di avere una vita di cinema: è qualcosa di affascinante”.
L’incontro con Chiara Mastroianni, guidato da Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, in quest’ora che viaggia nel ricordo, dalle sue telefonata bugiarde sul meteo a Federico Fellini, comincia però dal principio, e lei ricorda che Marcello “aveva un lavoro, il contabile per una produzione, mestiere che non gli piaceva: ho trovato una sua lettera del ‘48 alla madre, periodo in cui faceva teatro amatoriale, e le scriveva di una produttrice che gli aveva detto avrebbe potuto avere un futuro nel cinema; mi ha commosso l’inconsapevolezza… di quel che sarebbe poi davvero accaduto”.
Appartiene a uno stesso girotondo temporale anche l’incontro con Luchino Visconti, per cui Mastroianni recitava nella compagnia teatrale universitaria, quando in sala c’era l’amministratore della compagnia del Maestro milanese. Marcello, ricorda Farinelli, non ha mai frequentano scuole di recitazione, eppure nel tempo s’è affermato una sorta di “metodo Mastroianni”, concetto che, a parere della figlia, l’avrebbe fatto indispettire ma, insomma, chi era Mastroianni sul set? “Era totalmente disponibile, senza mai voler essere più forte del personaggio; la sua modernità risiedeva nel portare in quell’epoca un’altra proposta di modello maschile, una mascolinità diversa dal mito del maschio italiano. Il set era per lui il posto in cui si sentiva al riparo, sereno: in vacanza era insopportabile per esempio, si annoiava; lui trovava la sua ragione di vivere sul set”.
La parola passa poi a lui, all’evocato Visconti, da un estratto d’archivio, in cui descrive Marcello Mastroianni e ne racconta la sua famosa indolenza, analizzandola come forma di difesa, perché lo definisce “disponibilissimo, dà tutto quello che deve dare” e ne palesa “un solo difetto: telefona troppo, ma penso lo faccia per scaricarsi”. E Chiara non smentisce, anzi: “mi ricordo quando da bambina andavo a Cinecittà, lui amava i gettoni, il sacchetto, aveva un’ossessione per il telefono; amava poter chiamare ma non essere rintracciato, infatti poi non amava il cellulare; mio padre poteva chiamarmi 4/5 volte al giorno e chiedere le stesse cose ma adesso mi manca anche solo un suo messaggio in segreteria in cui mi chiedeva: ‘ci sei?’. Il telefono era davvero molto, molto importante per lui, molto”. E sull’indolenza, “leggenda” che lo accompagna da sempre, la figlia spiega che fosse “lui per primo diceva di essere pigro, perché metteva avanti le sue peggiori qualità perché non ci si aspettasse niente da lui; per questo detestava essere considerato un latin lover, perché poi le donne si aspettavano chissà cosa. L’indolenza era come una specie di grasso che lo proteggeva, come ha detto Visconti. Una malinconia lo abitava, nella vita rimaneva sempre un’inquietudine, per cui il cinema l’ha molto supportato: era rimasto molto toccato dalla guerra, dal padre che era antifascista e perse tutta la sua falegnameria, è stato qualcosa che l’ha molto marcato, ne ha parlato fino alla fine”.
Marcello Mastroianni aveva talento, bellezza, fascino, tutto palese, tutto indubbio, eppure aveva “un rapporto col pubblico come fosse un fratello, non amava l’idea del mito, si mostrava com’era, senza cercare di inventarsi un personaggio. Lui detestava stare con se stesso, era rimasto sempre curioso degli altri. Era un uomo che aveva il gusto di parlare con gli altri, cosa che lo rendeva molto umano. Credo fosse un uomo che non s’è mai scordato da che mondo venisse, le cose semplici gli davano piacere, ed era poi sua eleganza essere a disposizione, come interprete e non come star”.
Da queste modesta e riservata pacatezza si passa alla danza, quella vivacissima di una famosa sequenza da Le notti bianchi, “una danza pazza per l’epoca, sicuramente è un’improvvisazione, e lui non ha paura di essere ridicolo; era un uomo molto spiritoso e questa scena è l’esempio di un uomo affascinante ma pronto a abbandonare se stesso, seppur con grazia, è un tratto della sua personalità che esce fuori”. Il ballo che ritorna anche in Ciao Rudy, Ginger e Fred, Una giornata particolare eppure “non ballava nella vita. Sono nata che aveva 50 anni e ricordo che nella vita fosse discreto, non amava avere troppa attenzione su di sé; il set era il luogo della libertà e poi la vita quotidiana era più calma. Nel privato non risulta essere stato un uomo che ballava, era un uomo molto pudico, di grande pudore”.
Sempre tra grande schermo e realtà, ecco il suo rapporto con Sophia Loren, per cui viene mostrato un raro Super8 a colori, dal set de La fortuna di essere donna di Alessandro Blasetti: Chiara Mastroianni dice che “loro due avevano in comune di essere persone molto simpatiche: la bellezza può mettere distanza, ma loro si sapevano divertire. Io ricordo una volta, erano gli Anni 80, a Parigi, quando lei venne con la famiglia e noi eravamo andati a trovarli in hotel, io ero affascinata: lei è così simpatica… magna, ride. L’ho ritrovata anni dopo sul set di Altman, Prêt-à-Porter, e siccome Sophia aveva aveva un costume sofisticato da indossare, lui non voleva lasciarla sola nelle pause pranzo, così le faceva compagnia mangiando un panino… Io avevo vent’anni, sì ero attrice del film, ma molto affascinata dal set, e ho proprio ricordo di questa attenzione di lui, attento a lei ancora dopo tanti anni: erano una coppia di cinema perfetta”.
E poi, come definisce impeccabile Farinelli, Marcello Mastroianni a un certo punto diventa “Marcello.”, e questo fa rima con Fellini e con il suo cinema: “di Federico ho tanti ricordi. Ero molto piccola sul set de La città delle donne, io avevo 6/7 anni, per cui non avevo l’idea del genio di Fellini, per me erano due amici che lavoravano insieme. Mi ricordo che lui aveva un appartamentino sopra lo Studio 5: Cinecittà per me era un sogno, una vera città del cinema, in cui mentre Scola nel suo studio cucinava una pasta, al bar incontravi uno vestito da gladiatore, qualcosa che da bambino ti faceva perdere la testa. Era un mondo nel mondo. Federico era un uomo veramente legato a mio padre, per me sono indissociabili. La Dolce Vita è un film amaro, buio, in cui credo ci fosse qualcosa sul tormento, sulla difficoltà di essere un uomo, un concetto che li legava molto: erano uomini con vite pazzesche ma anche pieni di malinconia”.
Marcello, l’abbiamo inteso, riluttava l’immagine del latin lover, ma una donna non qualunque lo connette alla mamma di Chiara, Catherine Deneuve, che lo definisce “un po’ vigliacco” ed è la figlia a raccontare che fosse “lui stesso a dire di sé di essere un po’ vigliacco. Non si poteva nemmeno rimproverarlo, lo diceva lui per primo. Si son separati che avevo due anni, e hanno però interpretato molti film insieme: ero una bambina, non ha immagini della coppia insieme, finché non capita che veda La cagna e… vai di psicoterapia – ironizza Chiara, un film in cui mamma diventa il suo cane; poi, ancora, niente di grave, suo marito è incinto e… via altra psicoterapia!”. Insomma, questa è anche l’occasione per lei di ribadire come lui non temesse di restituire “l’immagine del maschio italiano capace di perdere, infatti amava James Stuart, l’antieroe di Hitchcock, un uomo capace di perdere: da parte sua c’era una grande coscienza di rompere l’immagine del latin lover, gli dava davvero disagio; era un’immagine riduttrice, che gli dava sui nervi”.
E, ancora, Marcello Mastroianni “non si è mai pronunciato sulla politica, ma c’era un impegno morale nella scelta dei film”, altrettanto “non era un intellettuale ed era il primo a dirlo: ‘io non vado a dormire leggendo Čechov, leggo Quattro Ruote, e questa umiltà gli dava la possibilità di farlo recitare poi come un principe e la pazienza – che lui definiva il fondamentale talento di un attore – era una forma di saggezza e di umiltà, il saper aspettare il tuo momento”.
Infine, Chiara Mastroianni, nel nome della discrezione e dell’eleganza d’animo del suo papà, nella ricorrenza del centenario dalla nascita, ammette che probabilmente lui sarebbe stato un po’ imbarazzato ad avere addosso tutta questa luce, che cercherebbe di spostare l’attenzione da sé ai film e che quindi la “scusa” di questo anniversario lei la voglia accogliere come la possibilità di “rendere omaggio a un grande, grande, grande cinema italiano”.
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