La clausura e la convivenza forzata imposti dalla pandemia visti da tre case losangeline, attraverso lo sguardo di una regista italiana. Life Upside Down (La Vita Sottosopra) di Cecilia Miniucchi – che, dopo la presentazione alle Giornate degli Autori, esce oggi al cinema negli Stati Uniti e in contemporanea in VOD con la casa di distribuzione IFC Films – offre una prospettiva in più alle tante storie sull’isolamento (e le sue conseguenze) concepite in seguito al lockdown. Unica regista italiana che fa film a Hollywood, Miniucchi ha diretto da casa sua Bob Odenkirk (Breaking Bad e Better Call Saul), Danny Huston e Radha Mitchell – che a loro volta erano chiusi in casa – durante il lockdown del 2020, per raccontare l’impatto dell’isolamento sulla vita e, soprattutto, sulla consapevolezza delle persone.
La storia è quella di tre coppie di amici costrette a rimanere ognuna nella propria casa a causa dell’inaspettato lockdown a Los Angeles. Jonathan (Bob Odenkirk) ha una galleria d’arte e vive con sua moglie Sue (Jeanie Lim), ma ha un’amante, Clarissa (Radha Mitchell), che non può vedere. Lei invece vive da sola, accanto al suo inquilino iraniano Darius (Cyrus Pahlavi) e comunica al telefono con poche persone, tra cui il suo ex-professore e caro amico Paul (Danny Huston), che è sposato a Rita (Rosie Fellner). Ognuno di loro, intrappolato in casa, rivaluterà le proprie relazioni e i propri desideri. Life Upside Down sarà distribuito a maggio in Italia da Genoma Films.
Come avete organizzato le riprese? Nel corso di quanto tempo?
Uno dei produttori, Carl F. Berg, ha inventato un marchingegno su cui venivano messi i vari microfoni, iPad e iPhone. L’altro produttore, Jeffrey Coulter, ha avuto l’idea di fare un video per dimostrare agli attori come avremmo girato il film. Io dirigevo le scene dal mio ufficio, da remoto, attraverso lo schermo del mio computer, a volte due scene contemporaneamente, e con FaceTime, attraverso l’iPad che riprendeva quello che effettivamente veniva filmato con l’iPhone. Abbiamo girato per circa un mese.
Come ha scelto e coinvolto gli attori?
Li ho chiamati e ho chiesto loro se erano interessati a partecipare a questo “esperimento”. Entusiasta, Bob Odenkirk mi ha subito risposto: “Cool I’m in” e anche Danny Huston e Radha Mitchell erano contenti di partecipare. Gli ho raccontato in poche parole la storia e appena hanno detto di sì ho iniziato a fare le prove e abbiamo iniziato a girare dopo poco. Volevamo tutti continuare a essere creativi in un momento in cui non si sapeva cosa sarebbe accaduto. Era proprio all’inizio del lockdown, qui a Los Angeles.
La prima scena nella galleria d’arte è un piano sequenza e anche l’ultima si stacca stilisticamente rispetto all’immobilità, sia formale che sostanziale, che caratterizza questo racconto…
La prima scena (come anche l’ultima), è stata girata come amo girare normalmente io, ovvero con una steadycam, con gli attori liberi di spostarsi come vogliono, con movimento continuo e in tutti i sensi. Volevo creare un contrasto, sia nello stile cinematografico che nell’atmosfera in generale, con quello che stava invece per succedere nella vita e nel film. La macchina da presa infatti, appena inizia il lockdown, è ferma, è statica. Non si muove.
Immagino che abbia vissuto il lockdown a Los Angeles: come le appariva da lì la situazione italiana?
Sì, ero in gabbia qui a Los Angeles. Ancora qua la situazione non era così tragica come in Italia, che mi stava sempre nel cuore. Avevo paura per i miei cari, per tutti, ho provato dolore per tutti quelli che hanno pagato con la vita questa orribile pandemia.
La pandemia ha cambiato le vite dei protagonisti di Life Upside Down, come ha cambiato la sua?
Sì, mi auguro che guardando il film, si giunga a quella conclusione. La mia vita è cambiata forse più a livello psicologico che pratico: certe paure, certi timori, anche una certa diffidenza, ancora abitano nel mio inconscio, credo. A livello di considerazioni, diciamo, al di là di me stessa, il Covid ha rafforzato il mio più grande desiderio: che si possa vivere tutti in pace su questo pianeta e avere un grande senso di compassione umana verso ogni suo abitante.
So che è stata allieva di Lina Wertmüller: qual è stato il vostro percorso insieme? Qual è la cosa più importante che le ha insegnato?
Ho lavorato con lei, l’ho seguita per anni in tanti modi, ho avuto poi l’onore di averla una volta qui a L.A. su un mio set. Siamo state molto insieme quando è venuta a ritirare il suo meritatissimo Oscar. È stata l’ultima volta che l’ho vista. Mi ha insegnato a difendere il mio talento – ammesso che esista – e la mia simpatia, come la chiamava lei, “a spada tratta”. E a non arrendermi mai. Anche come donna.
Lei è l’unica donna italiana che fa film a Hollywood da regista, come vive questo “ruolo”?
Quando mi hanno detto questo… da una parte mi ha fatto piacere, dall’altra mi ha ricordato quanto sia difficile iniziare a lavorare qua, non solo come donna, ma come donna non americana. E questo mi ha colmato di tristezza. Spero di aver aperto un pochino almeno la strada a tutte le bravissime giovani leve italiane che come me, sognano di fare cinema qui a Hollywood.
Ha in preparazione nuovi progetti di film?
Sto girando una serie TV sull’arte e le celebrità, di cui abbiamo già completato quattro episodi con grandi attori come Jack Black, John Lithgow, Kathryn Hahn e Josh Holloway. Ho un’altra serie che stiamo scrivendo e poi… Mi sembra che fosse Frank Capra a dire “una volta che hai la malattia di fare film, l’unica cosa che ti può curare è farne un altro!”.
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