TRENTO – È una storia di comunità, sociale, considerando società il nucleo di un paese. E, come ogni società che si rispetti, anche questa ha i propri “codici non scritti”, e questa storia racconta quello del Rispet – titolo proprio del film – che viene infranto. Perché? Per troppo e cieco radicamento delle prassi sociali? Per l’impensabilità di un’amicizia tra due persone apparentemente distanti, invece non impossibili al dialogo?
Corvaz (Alex Zancanella) è il protagonista, trentenne all’anagrafe ma figlio di un tempo che per molti sembra antico eppure proprio del territorio montano: collabora col papà a curare la vigna; il suo amico è Toni, un cane. Certamente puro e fedele quest’ultimo, differente dagli uomini del bar della piazza, di proprietà del terriero più abbiente del posto e gestito dalla fidanzata del figlio, Mara (Mara Paolazzi): è un covo di ritrovo per gli uomini del posto, ma non un nido di amicizia, anzi lì si connettono vecchi rancori e amicizie fittizie. Poi accade “il fatto”: le statue lignee che decorano la piazza vengono vandalizzate e naturalmente il dito viene puntato contro la mosca bianca del gruppo, quello che non appartiene al gregge del bar, Corvaz. È Mara, contro ogni ostilità collettiva, a decidere di incontrarlo: si creano così due poli opposti, quello di un’amicizia sincera e quello dell’ostilità crescente del resto della comunità.
Cecilia Bozza Wolf – classe 1989 -, trentina doc, esordisce con Rispet, questa la sua opera prima di finzione, tra le Anteprime al Festival:
Cecilia, Rispet, il titolo, da una parte suona come un monito, quasi un imperativo – ‘abbi rispetto!’-, dall’altro sappiamo dal film essere un codice spezzato, di dinamica sociale. Qual è il senso primo di questa parola nella sua concezione del racconto?
‘Rispet’ in dialetto trentino ha un doppio significato quasi opposto, perché raccoglie in un’unica parola ‘vergogna’ e ‘rispetto’. L’ho trovato immediatamente interessante perché lì c’è molta della mentalità di questi luoghi alpini, di montagna, e crea un cortocircuito tra queste due accezioni opposte, che ben denotano la mentalità.
Rispet è la sua opera prima di finzione, perché ha sentito il bisogno che fosse proprio questa la prima storia con cui lasciare traccia nel cinema?
Io vengo dal documentario, il mio precedente aveva sempre un titolo in dialetto, Vergot, e durante la ricerca per questo lavoro avevo avuto modo di concentrarmi sul raccontare una famiglia: sin dall’inizio del mio approccio al cinema, dai tempi dell’università, mi portavo dietro questa domanda: ‘come mai ho avuto modo di notare, anche in adolescenza, che esistano ancora tutta una serie di disagi sociali?’. Penso a quando ero alle superiori e due miei coetanei si sono suicidati; sapevo e vedevo persone intono a me che facevano grandissimo uso d’alcol e io stessa intorno ai quattordici anni mi sono chiesta cosa fare il sabato sera e vedevo che l’attitudine fosse andare al bar e bere; di conseguenza, dietro a queste situazioni, emergevano disagi psichici, depressione, altre all’alcolismo endemico appunto. Al contempo avevo anche l’impressione che però non se ne dovesse parlare, non a voce alta, un po’ come quello sporco che c’è ma va nascosto sotto il tappeto, anzi bisogna ‘avere rispet’, non si fa, non è cosa bella. Quando poi sono arrivata da Padova all’università mi sono resa conto che non fossi sola con questi miei pensieri e ho scoperto che questo antropologo e sociologo trentino, Cristiano Arnoldi, aveva scritto un saggio, Tristi montagna, che raccoglieva i tristissimi cinquanta fatti di cronaca nera successi nell’arco alpino da inizio Novecento a oggi, e poi – forte dell’approccio sociologico – arriva a sostenere che effettivamente esistano dei malesseri tipicamente alpini, che spesso vengono un po’ nascosti perché danneggerebbero un po’ l’immagine legata al turismo, al marketing: spesso la montagna stessa è rappresentata attraverso il lato più idilliaco, che esiste, è indubbio, ma è un aspetto, mentre esistono anche delle complessità, delle fragilità, quindi mi porto dietro questa fissazione da un pezzo. Poi, sempre all’università, ho conosciuto Raffele Pizzati Sartorelli, il co-autore di Rispet e con cui sto scrivendo anche il prossimo film, che è valtellinese, così ci siamo confrontati ritrovando le stesse dinamiche: quindi, ho sempre sentito il bisogno, sin dall’infanzia, di alzare un po’ la voce sul tema, perché reputo sia giusto parlarne, ho visto troppa gente soffrire in silenzio.
Lei sceglie di affiancare Toni a Corvaz, non una persona, ma un animale. Perché? Cosa simboleggia questa opzione: minor fiducia nell’essere umano, maggiore nell’animale?
Toni anzitutto è il mio cane e sicuramente io con il mondo degli animali ho sempre avuto un rapporto molto spontaneo, non mi definirei un’animalista ma proprio qui al Festival ho visto un film in cui si dice che non esista un diritto per gli esseri non umani e invece probabilmente non sarebbe male se esistesse. Quello che sicuramente ho è una forte sensibilità in questo senso e indubbiamente in certi momenti gli animali possono dare più soddisfazione degli umani; e poi voleva essere anche un po’ il simbolo di un rapporto puro, e per Corvaz la sostituzione della figura della madre.
Quest’ultimo tema, anche alla luce dell’attualità del dibattito sull’orso qui in Trentino, è un sentire dominante nella società, montana e in generale, cioè l’inclinazione all’animale? La società ci fa cercare fiducia più nella purezza di un animale che nell’oscurità dell’animo umano?
Credo che sul rapporto animale-montagna ci si addentri in un tema davvero complesso, ma giusto nelle ore scorse sono uscita a passeggiare con Toni e mi fa molto arrabbiare osservare l’atteggiamento di certi pastori con i loro cani: vicino al fiume c’erano pecore e capre chiuse in un recinto e dentro anche due cani, legati a un metro… di catena. Per cui, da un lato c’è l’idea dell’animale idealizzato e puro, usato anche come strumento di marketing, così anche per l’orso, dall’altro c’è in alcuni contesti un modo di rapportarsi all’animale che si potrebbe definire quasi arcaico, e quindi l’umanizzazione è del tutto relativa o assente. Sono abbastanza d’accordo con quello che ha detto Paolo Cognetti non molto tempo fa: sicuramente noi, come abitanti della montagna, avremmo bisogno di conoscere meglio gli animali del bosco, perché viviamo in luoghi in cui però noi stessi ci siamo identificati col buon montanaro che vive in simbiosi con la natura o il super sportivo che fa sport in mezzo al bosco, e quindi c’è un po’ di confusione su come ci si debba comportare quando si va nel bosco: noi umani occupiamo gran parte del territorio, è giusto che anche loro possano vivere come giusto, e noi dovremmo sapere di conseguenza come convivere, e questo manca, servirebbe una formazione a riguardo.
Lei s’è laureata a Padova con una tesi su Fellini. Seppur all’apparenza nel suo film non ci sia niente di ‘felliniano’, davvero siamo sicuri non ci sia invece qualcosa di molto più intimo che la connette a lui?
Sicuramente avendo dovuto approfondirlo in una tesi in cui si sostiene che La dolce vita e 8 ½ fossero un unico film, quasi uno la prosecuzione dell’altro, una cosa che posso riconoscere è il rapporto con l’infanzia, e anche una propensione, seppur nel mio caso totalmente embrionale, a avvalersi di collaboratori che siano un po’ sempre quelli, come il protagonista di Rispet era uno dei due del mio precedente documentario. Sto lavorando a un nuovo film e spero di poter rilavorare con la stessa dop e ricoinvolgere una parte degli attori e… penso con Fellini potrebbe esserci più legame nel prossimo film.
E quindi: quale sarà il prossimo film?
Sarà di finzione, sarà una commedia nera. Un trio di drag queen di pianura viene ingaggiato per uno spettacolo in una valle delle Alpi: arrivando investe un’anziana signora col suo camper, di conseguenza vengono ricattate da un contadino, e costrette a travestirsi da donne per partecipare al paglio dei boscaioli, e da qui una serie di misteriosi delitti, che porteranno scoprire il passato oscuro.
È una sua idea originale?
Sì.
E per cui sceglie il genere.
Devo dire che anche con Rispet c’era un po’ la volontà di muoversi mantenendo sì il legame col documentario in qualche modo, ma per me è stato un po’ come un western, per la logica dello straniero/lo strambo/l’estraneo che arriva in paese, in cui l’unica che lo aiuta è ‘la padrona del saloon’, per poi arrivare alla grande sfida finale: l’abbiamo scherzosamente ribattezzato ‘polenta western’. Io sono appassionata di cinema di genere, passo dal cinema d’autore al mainstream senza preconcetti. Certamente, sia per Rispet che per il prossimo film, un mio punto di riferimento è stato Twin Peaks, per il racconto della micro comunità, della persona che arriva da fuori contesto, addirittura il soprannaturale che col prossimo stiamo un po’ toccando, e sicuramente è stato un grande esempio, anche per la fotografia.
Il film prossimo ha un titolo? Qual è lo stato di lavorazione?
Ha un titolo provvisorio per ora, Confusia. Siamo in sviluppo e abbiamo fatto un paio di workshop con il Torino Film Lab.
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