Carlo Verdone : “Debutterò nella serie tv”

Guest director del Torino FF, Verdone rievoca gli inizi della sua carriera e la sua fase cinefila. In attesa, il 27 febbraio, di arrivare al cinema con il suo 27° film, Si vive una volta sola


TORINO – Tre uomini e una donna. Un quartetto di medici abili in sala operatoria – visto che persino il Papa si affida alle loro cure – ma inaffidabili, fragili e maldestri nella vita privata. Ecco Si vive una volta sola, il nuovo film di Carlo Verdone, ventisettesimo da regista. In sala il 27 febbraio con Vision e Filmauro. Sceneggiato da Verdone insieme a Giovanni Veronesi e Pasquale Plastino, girato in Puglia la primavera scorsa, è attualmente agli ultimi ritocchi della post produzione. E’ la storia del Professor Umberto Gastaldi (Carlo Verdone) alla guida di una formidabile équipe medica composta dalla strumentista Lucia Santilli (Anna Foglietta), dall’anestesista Amedeo Lasalandra (Rocco Papaleo) e dal suo assistente Corrado Pezzella (Max Tortora): clinici illustri ma anche implacabili maestri della beffa, capaci di partorire scherzi spietati, specialmente se la vittima di turno è il loro amico Amedeo. Verdone non vuole dire nulla sul nuovo film, si limita ad annunciare l’uscita a febbraio, decisa, insieme ad Aurelio De Laurentiis, perché “il film ci sembra molto buono e non vogliamo fare battaglie, pensiamo che meriti tante sale”. Mentre nel suo futuro c’è una serie: “Fanno male quei colleghi che criticano le serie. E’ un cambiamento della visione del prodotto. Certo, alcune sono una catena di montaggio, perfette, ma costruite a tavolino da esperti di comunicazione di massa, scritte da 7 sceneggiatori e dirette da 7 registi, fatto apposta per essere un droga che ti prende. Tra due anni farò anch’io una serie tv, De Laurentiis era a Los Angeles per parlarne con grossi partner”.

A Torino in veste di guest director, l’attore e regista romano ha scelto cinque film da proporre al pubblico del festival: Viale del tramonto di Billy Wilder, Divorzio all’italiana di Germi, Oltre il giardino di Hal Ashby, Buon compleanno Mr. Grape di Lasse Hallstrom e Ordet di Dreyer. “Li ho presentati da spettatore appassionato, senza i voli pindarici dei critici. Sono film che ho visto nei cineclub. Mio padre (il critico Mario Verdone, ndr) mi regalò nel 1970 la tessera del Filmstudio che frequentai per 10 anni. Lì ho visto tanto cinema underground italiano e americano, da Alberto Grifi a Kenneth Anger, e poi tutti i classici, Lubitsch, Fritz Lang, Hitchcock”. Ognuno dei cinque titoli che compongono “cinque grandi emozioni” è legato a un momento della sua vita. Mr Grape con DiCaprio, per esempio, all’esperienza del cinema Roma di Piazza Sonnino, una sala che Verdone gestì per qualche tempo negli anni ’90. Oltre il giardino vuole essere un omaggio non scontato a Peter Sellers. “Pietro Germi è il mio regista del cuore, un grande della commedia”.

Racconta un aneddoto della sua carriera di studente. “Dovevo passare l’esame di storia del cinema e credevo di essermi messo d’accordo con mio padre, dicendogli che ero preparato su Fellini, Blasetti, Pasolini. Mi mancavano solo due esami alla laurea. Ma lui mi interrogò su Pabst e Dreyer, apposta per farmi fare brutta figura. E poi disse la fatidica frase: si presenti alla prossima sezione. L’ho ripetuta pari pari in Grande grosso e Verdone quando il prof Cagnato interroga mio figlio Paolo in storia dell’arte sul Cavallini”.

Ordet è forse il suo preferito. “Ieri, presentandolo, pensavo che Dreyer avrebbe dovuto vedere la sala strapiena, lui che non aveva mai avuto tanto successo di pubblico. Toccava temi troppo profondi, la religiosità, il dogma, l’etica. Io che mi sarei dovuto laureare in storia delle religioni, anche se poi ho cambiato quando mi sono iscritto al Centro sperimentale, lo amo particolarmente. Ero un bravo studente di religioni dell’Oriente antico, pensavo alla carriera universitaria, poi la vita ha scelto per me”.

I suoi inizi al cinema furono sperimentali. “Influenzato dalle sperimentazioni del periodo comprai da Isabella Rossellini, che aveva bisogno di soldi, una Super8 con macro zoom e feci tre mediometraggi, con titoli come Allegoria di primavera ed Elegia notturna. Quasi solo immagini con musica sinfonica o elettronica. Anthony Quinn rimase colpito e anche Rossellini, che mi aiutò a entrare al Centro sperimentale. Oggi questi film non esistono più, la Rai li ha persi o magari qualcuno li tiene da parte e li tirerà fuori quando muoio. Ero poetico e crepuscolare anche un po’ psichedelico”.

Grande l’emozione di entrare alla Rai di Via Verdi a Torino e farsi fotografare vicino a una vecchia telecamera. “Qui fui scoperto da Enzo Trapani nel programma Non Stop. Nasceva quasi all’impronta, io avevo molti dubbi sulle mie qualità, ma lui mi fece fare una puntata da solo. Scrivi scrivi, mi disse. E poi il dirigente Rai Gambarotta mi pronosticò un avvenire di successo: è inutile che si compri una 127, tra qualche anno avrà l’autista”. 

Come mai agli inizi, nonostante i trascorsi intellettuali, scelse una regia semplice, centrata sulla recitazione degli attori e sulla descrizione dei personaggi? “Le mie armi più potenti erano le caratterizzazioni, la recitazione. Non sarebbe stato più cinema spararmi la macchina da presa addosso. E poi mi sono sempre evoluto, di film in film. Sono diventato via via meno romanocentrico, ho spaziato. Con Compagni di scuola volevo dimostrare di essere un buon regista con un film teatrale e con un grande cast di bravi attori. Per Maledetto il giorno che ti ho incontrato l’Ansa scrisse ‘Verdone sfonda al Nord’ perché feci grandi incassi anche lontano da Roma. Oggi non posso più fare quello che facevo negli anni ’80, prima scrivevo sui caratteri, adesso scrivo su alcuni temi”.

Meglio piacere al pubblico o alla critica? “L’unanimità non esiste, neanche per gli artisti più immensi. Ma se c’è il pubblico sono sicuro che il prossimo film lo farò. Non ho mai fatto perdere soldi a un produttore neanche con C’era un cinese in coma che ha faticato all’inizio ma poi ha avuto successo in tv e ancora ce l’ha. Tra l’altro è il film preferito di Toni Servillo, dice che contiene cinismo, rabbia, tradimento. Detto dal più grande attore italiano fa piacere”.  

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