PESARO – Non gli importa troppo se il film sarà distribuito, “lo considero un messaggio nella bottiglia che arriverà dove arriverà”. Carlo Michele Schirinzi, unico italiano in concorso alla Mostra di Pesaro, viene da lontano come quel message in a bottle. L’artista leccese, al suo primo lungometraggio con I resti di Bisanzio, ha realizzato oltre cinquanta lavori, tutti in video. Le sue opere hanno partecipato ai più importanti festival internazionali dedicati alla sperimentazione del linguaggio digitale vincendo, tra gli altri, nel 2004 con All’erta! il premio Shortvillage proprio a Pesaro e nel 2009 con Notturno Stenopeico quello per il miglior cortometraggio al Torino Film Festival. Nel 2011 ha partecipato sia alla Biennale d’Arte che alla Mostra del Cinema di Venezia: alla prima con la serie di documentari Intramoenia Extrart, alla seconda con il cortometraggio Eco da luogo colpito. Nel 2005 era stato protagonista a Pesaro di una retrospettiva dei suoi lavori più sperimentali.
Film iconoclasta e imprendibile, I resti di Bisanzio ci mostra il naufragio di una civiltà, la nostra, attraverso tre figure senza nome: C (Stefano De Santis) è un incendiario che condivide un profondo malessere con i suoi amici S (Salvatore Bello), che suona nella banda del paese, e R (Fulvio Rifuggio), ex benzinaio apatico. Nel frattempo tre clandestini approdano sulle rive adriatiche e si perdono tra le macerie del Capo di Leuca, mentre un terrorista culturale ritaglia lettere da un libro per scrivere messaggi anonimi che non spedirà.
Si riconosce nella definizione di videoartista?
Odio le definizioni e questa in particolare. Mi considero più un musicista delle immagini. Ho provato a scovare immagini che avessero un’eco sonora, che colpissero corde interne in ognuno di noi.
Qual è la sua formazione?
Ho studiato all’Accademia delle Belle arti e mi sono specializzato in scenografia teatrale, ma ben presto, amando il cinema, ho preso una videocamera e ho iniziato a realizzare dei video, subito dopo la laurea nel ‘98/99. Erano autoriprese performative in cui posizionavo la videocamera sul cavalletto davanti a me e mi muovevo in maniera grottesca. I miei primi lavori li ho spediti a festival e gallerie d’arte. Poi nel 2001 a Bellaria, sotto la coraggiosa direzione di Enrico Ghezzi, ho avuto un primo riconoscimento che mi ha dato il coraggio di muovermi in ambiti non strettamente artistici.
Lei si occupa di ogni aspetto del suo lavoro, dalla scrittura al montaggio, dalle scene alla fotografia.
Credo nell’autarchia. Nel mio logo ci sono io vestito da Ubu Re. Jarry è uno dei miei autori preferiti, con Carmelo Bene che è il mio nume.
Come mai ha deciso di passare al lungometraggio?
Il lungometraggio non era una meta per me. Sono contro chi dice che il corto è la palestra per il lungo. Sarebbe come dire che la poesia è una palestra per arrivare al romanzo. Ho voluto scrivere una storia che mettesse il punto su alcuni discorsi fatti sulla mia terra come Notturno stenopeico o Mammaliturchi! o Il nido.
La sua terra è il Salento che lei ci mostra come un non luogo abbandonato, in macerie.
Si è creato uno stereotipo del Salento che ha portato danni irreparabili. Ci si aspetta un certo tipo di immagine e di suono, la pizzica, invece la nostra scena musicale è ricchissima. Si improvvisa il turismo producendo una cementificazione assurda sulle coste, alberghi che nascono in luoghi dove non dovrebbero nascere. Questo territorio è stato completamente stravolto. Il film è il ritratto di una zona molto ristretta, il Capo di Leuca, circa 15 km, il finis terrae.
Il titolo suggerisce un senso di decadenza.
Il film nasce da un senso di impotenza. Il protagonista non ha un’identità. Così come per me quel luogo non ha identità oppure ha un’identità che sta morendo. Non è un lavoro sulla morte, perché quelli sono luoghi morenti, non morti, gli eremi bizantini invasi dalle muffe, l’architettura fascista in disfacimento, il centro d’accoglienza abbandonato. Non è importante la storia ma la geografia.
C’è un riferimento all’iconoclastia bizantina?
L’iconoclastia mi appartiene, spesso ho lavorato sui negativi graffiandoli. L’iconoclastia, il rifiuto delle immagini che venivano venerate, ha provocato la fuga di alcuni monaci che approdarono su quelle coste dell’Adriatico. Mostro i loro dipinti, immagini di donna, non di madonna, in cui mi piace immaginare anche una dimensione onanistica.
A quale cinema si sente vicino?
Mi oppongo al cinema dei colonizzatori. Autori come Ernesto De Martino e Vittorio De Seta si annullavano nella realtà, avevano un enorme rispetto per la realtà. Michelangelo Frammartino, che stimo immensamente, ha detto una volta che di fronte al reale l’autore deve avere umiltà di cancellarsi. Bisogna scuotere il pubblico che è ormai apatico. Artaud affermava che bisogna andare a teatro con lo stesso spirito con cui si va dal dentista. Il mio film è un naufragio, vuole che il pubblico si lasci trasportare da queste onde. E oggi i naufraghi spesso arrivano sulle nostre coste morti e noi li consideriamo il nuovo nemico.
Il maestro georgiano Otar Iosseliani ha tenuto a Pesaro una lezione di cinema in cui ha mostrato una certa amarezza per la “tragica caduta di qualità e mancanza di pensiero del cinema contemporaneo in un mestiere che sta diventando sempre più piatto e pieno di cliché”. In questa intervista gli abbiamo chiesto di parlarci del suo rapporto con la censura e della possibilità di tornare a lavorare in Georgia: "Sarebbe immorale togliere finanziamenti ai giovani registi"
Il vincitore del Premio Lino Miccichè è l’indiano Liar’s Dice, opera prima di Geethu Mohandas, un road movie atipico nel quale madre e figlia intraprendono un difficile viaggio verso Nuova Delhi, in compagnia di un disertore dell’esercito che guida le due alla ricerca del padre scomparso. Gli spettatori della “piazza” hanno votato per il Premio del Pubblico I ponti di Sarajevo, film collettivo realizzato per commemorare i cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale con l’attentato all'Arciduca Francesco Ferdinando avvenuto nella città bosniaca
Il montatore Marco Spoletini e il musicista Daniele Sepe hanno collaborato a The Fall from Heaven di Ferit Karahan, due storie parallele tra il Kurdistan e Istanbul, in concorso a Pesaro
Il regista sta per affrontare una sfida ancor più ambiziosa e complessa, raccontare una delle più gravi tragedie alpinistiche della storia, il tentativo di scalare il pilone centrale del Frêney, una verticale di 750 metri a ridosso della cima del Monte Bianco. Bianco, scritto con Massimo Gaudioso, budget sui 6 milioni di euro, coproduzione tra l’italiana Mir e la francese Aeternam, con Rai Cinema e la Valle d’Aosta Film Commission, sarà girato in montagna, in parte sui luoghi reali. Il cast è ancora da definire. E sul cinema italiano: "Stiamo realizzando un cinema di ricerca straordinario, solo il sistema non se ne è accorto"