Capote: lo scrittore e la pena di morte


È già candidato a cinque Oscar e avrebbe potuto portarsi a casa anche un Orso d’argento se non fosse fuori concorso. Diciamo di Capote di Bennett Miller, straordinaria performance di uno degli attori più amati dagli indipendenti Usa, il glauco e grassoccio Philip Seymour Hoffman. Pare che la somiglianza con l’autore di “Colazione da Tiffany”, uomo brillante quanto nevrotico, sia addirittura impressionate: la stessa mimica effeminata, gli stessi nervosi movimenti delle mani, la stessa voce chioccia e impastata dall’alcol che l’attore ha studiato per mesi fino a replicarla al millimetro. Il film, tratto dal romanzo di Gerald Clarke “Truman Capote” (in Italia lo pubblica Frassinelli), non è esattamente una biografia del letterato gay. Si concentra infatti esclusivamente sulla gestazione del suo capolavoro, il non fiction novel “In cold blood”, che nacque come inchiesta per il ‘New Yorker’ su uno sconvolgente omicido plurimo consumato in Kansas nel 1959. Un’intera famiglia di agricoltori era stata sterminata da due balordi nel corso di un furto andato storto. Truman, già acclamato protagonista della vita mondana newyorchese, è a caccia di un’ispirazione forte, e parte immediatamente per raggiungere il luogo del delitto accompagnato da un’amica d’infanzia, la scrittrice Harper Lee (autrice di un altro celebre romanzo saccheggiato dal cinema, “Il buio oltre la siepe”). Vincendo l’iniziale riluttanza della gente del posto, lo spregiudicato scrittore riesce ad ottenere i permessi per visitare i due assassini in carcere, finendo per conquistare la fiducia di uno dei due, con cui condivide un’infanzia devastata da lutti e abbandoni.

Il film restituisce benissimo l’intricato rapporto di attrazione e dipendenza che si viene a creare tra il sensibile criminale alla ricerca di una redenzione impossibile e l’intellettuale che non esita a ingannare l’altro con false promesse e bugie. Non solo smetterà di occuparsi della revisione del processo, ma vedrà nell’esecuzione l’occasione migliore per garantire al libro un successo di massa. Il film di Miller, come del resto quello di Richard Brooks del ’66 (In cold blood) si conclude con un’impiccaggione che travolge, moralmente, lo stesso Capote. Dopo quell’esperienza non solo non riuscirà più a portare a termine un solo libro ma morirà alcolizzato nel 1984 senza più aver cancellato la memoria di una condanna a morte forse evitabile.
Un’ultima curiosità: Capote collaborò con Vittorio De Sica e Luigi Chiarini ai dialoghi di Stazione Termini, il film girato a Roma nel ’53 e diretto dal nostro maestro con Jennifer Jones e Monty Clift.

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17 Febbraio 2006

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