Camilla Iannetti: “L’era d’oro è il ritratto di una famiglia non convenzionale”

Presentato ad Alice nella Città 2024, il documentario della regista romana ci porta a Palermo, a riscoprire le protagoniste del suo primo film alle prese con l'arrivo di una bambina


ROMA – Dopo cinque anni a Londra, la giovane italo-inglese Lucy, torna nella sua Palermo non più da sola, ma con l’infante Futura, bambina avuta dal gambiano Kitim, con cui ha avuto una relazione l’estate precedente. Supportata dalla madre Roberta e dalla sorella minore Danny, Lucy ci prepara alla sua nuova vita italiana al fianco di un uomo che, però, conosce poco.

Con il documentario L’era d’oro, presentato ad Alice nella Città 2024, la regista Camilla Iannetti dirige il seguito ideale del suo primo film, Uno due tre, ritrovando lo stesso nucleo familiare in procinto di subire nuovi imprevedibili cambiamenti, tra difficoltà economiche, continue incomprensioni e speranze per il futuro.

Camilla Iannetti, cosa ti ha spinto a tornare da queste donne così tanti anni dopo il tuo primo film?

A spingermi è stata la contingenza del fatto che una di loro aspettava una bambina. C’era un potenziale di trasformazione nelle loro vite che mi ha convinto a ritornare cosa stessero combinando. Il potenziale narrativo di quell’evento era molto forte, il rapporto che avevo con loro era già molto bello e consolidato nel tempo e quindi ho pensato che fosse un’occasione per testimoniare il passaggio nel tempo, che è una cosa che mi piace molto. Le ho conosciute che Roberta era una madre 40enne e Lucy era in procinto di lasciare il nido di familiare. Danny era una bambina di nove anni. Equilibri che sentivano l’esigenza di traballare per equilibrarsi, perché da tre diventavano due e Lucy cercava la sua strada da sola.

Da tre diventavano due, mentre adesso da tre sono diventate quattro.

Esatto. Rivederle tutte assieme sotto lo stesso tetto era un’occasione per mettere alla prova il loro legame, la loro pazienza reciproca, le loro trasformazioni personali, con la sorella in piena adolescenza. Mi rendo conto di avere avuto una posizione privilegiata rispetto a una condizione molto intima e privata che solitamente nel cinema documentario riguarda più spesso la propria.

Come si fa a rispettare questa intimità?

È stato un po’ un destino, perché durante le riprese del mio primo film mi sono ritrovata a essere la loro coinquilina. L’incontro con loro è stato un colpo di fulmine, mi sono resa conto che loro mi parlavano, il loro modo di essere mi colpiva, potevo ascoltarle parlare per ore. Tutto deriva da questa loro generosità e ampiezza di vedute su quello che può essere la trasformazione della tragedia personale in arte. Quello che mi ha motivato ad andare avanti era la percezione che da parte mia non era un’operazione forzata o violenta, ma c’era un continuo confronto su cosa significasse quello che stavo facendo. Mi ha molto aiutato sapere che loro avessero una propensione artistica, per cui quando io ho proposto questo progetto bislacco di filmarle, da parte loro non c’è stato pudore, diffidenza, senso di protezione come magari avrei potuto trovare in una famiglia più convenzionale. Invece ho trovato un supporto femminile su quello che potesse essere anche un po’ l’utopia, il sogno di fare qualcosa di bello e di diverso. Roberto dipinge e ha danzato, Lucy ha questo talento per la musica, che adesso è un po’ messo in pausa. Ha una bellissima penna.

Infatti, hai scelto un suo testo come titolo del film? Valorizzando anche la sua voce nella parte finale.

Sì, assolutamente. Oltre a essere un film per il pubblico con l’intento di arrivare a tutti, ho sempre sperato che per loro fosse anche un regalo, come un ritratto di famiglia che rimane. C’è sempre stata da parte mia una volontà per restituire un’immagine per il futuro, chissà come la prenderanno. Mi aspetto di confrontarmi tra altri 15 anni.

Un terzo capitolo magari, non c’è due senza tre.

Sì, mi piacerebbe molto. Nel momento in cui ho realizzato questo film ci ho messo anche un invito a Lucy a non perdere la sua passione per la musica, il suo talento. Spero che le rimanga.

Si percepisce una certa assenza degli uomini intorno a loro. Cosa vuol dire essere donna in questo contesto?

Sì, forse gli uomini non ci fanno una grande figura. In realtà dipende molto dalla percezione degli spettatori. Se posso permettermi di parlare a nome delle protagoniste, forse si sentono un po’ troppo per gli uomini che incontrano. Spesso tendono a idealizzare delle persone che non possono esserci per loro in maniera totalizzante come vorrebbero. Sono personalità ingombranti. C’è questo squilibrio tra il loro mondo ideale, dove si registra un’espressività totale, una libertà di essere se stesse e quindi il mondo degli uomini diventa un luogo di scontro con una realtà di limitatezza, di indifferenza, di fuga.

Si dice a un certo punto: “Non farti risucchiare dalla Sicilia”. Perché Lucy ha fatto la scelta di tornare a Palermo?

Lucy oscilla tra la sua personalità inglese e quella palermitana. Quest’ultima è quella che più insofferente al controllo, percepisco Palermo in cui ci sono tante nicchie se si vuole vivere una vita meno convenzionale. Si può star bene con poco. Allo stesso tempo, può risultare stretta, con poca offerta economica, soprattutto per degli artisti. Il rapporto con le istituzioni è molto difficile, basti pensare alla situazione delle case popolari, al fenomeno della gentrificazione. Penso che nel suo tornare a Palermo abbia inseguito un sogno, un’idea, che io faccio coincidere con L’era d’oro. Un’immagine che lei coltiva nella sua mente, di una famiglia tranquilla, di un luogo protetto in cui restare, solo che Palermo si rivela deludente per lei, forse anche nel recuperare un rapporto con sua madre.

“La vita è proprio stronza”, come dice Roberta nel film. Con loro un po’ lo è stata.

Sì, ma il film cerca di chiudere con una nota positiva. La cosa che mi piace ricordare è che la storia di queste protagoniste nel film finisce in un punto ben preciso, ma la loro vita continua.

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26 Ottobre 2024

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