Boris: quant’è precario il cinema italiano


“Niente era fatto a cazzo di cane”. Il commento è quello di un giornalista che ha assistito alla prima di Boris, il film prodotto da Wildside e Rai Cinema tratto dall’apprezzata sitcom televisiva di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, distribuito da 01 in 300 copie a partire dal 1° aprile. Chi ama e segue il serial sa che il giornalista di cui sopra non usa gratuitamente l’espressione volgare. E’ infatti uno dei tanti tormentoni del prodotto che, andato in onda su Sky e Cielo ma mai approdato sulle tv in chiaro, ha conquistato una bella squadra di seguaci con le sue strampalate storie ‘metatelevisive’ su una troupe coinvolta nella realizzazione di una pessima fiction. E il regista René Ferretti, magistralmente interpretato da Francesco Pannofino, che da vent’anni gira serie pedestri e dai nomi improbabili (Libeccio, La Bambina e il Capitano, Gli occhi del cuore) sa benissimo che tutto ciò che esce dalle sue mani è mal scritto, mal recitato, mal illuminato, tanto da autodefinirsi, sportivamente, il “campione della merda”. E sa che la Rete, nonché il suo pubblico, vuole esattamente che giri “a cazzo di cane” – che in romano significa “molto male”. Ma ci sono scene troppo brutte anche per lui. Così, quando il suo produttore (Antonio Catania) lo costringe a realizzare uno struggente ralenti sulla corsa nei prati di un giovane Ratzinger che festeggia la scoperta di un vaccino, anche René getta la spugna. Meglio l’insicurezza economica, meglio il cinema… Come saprà cavarsela Ferretti di fronte a questo nuovo mondo, dove la presunta grandeur è una rogna e alla fine, dopo tutto, a incombere è lo “spettro” del cinepanettone?

Lo spirito della serie, dicono gli appassionati, è intatto. Cambia il mezzo e dunque il gioco si adatta. Lì una fiction sulla fiction, qui un film sul cinema. I tormentoni, più o meno, ci sono tutti: “smarmellare”, “la rigiriamo”, “dai dai dai”…gli stessi slogan che, a sorpresa, vengono utilizzati da una ventina di ragazzi, intervenuti – pacificamente e con garbo –  in conferenza stampa e facenti parte del comitato dei precari a sostegno di una manifestazione in programma il 9 aprile in tutta Italia. Già, perché Boris, nel tratteggiare con ironia e precisione il mondo del cinema italiano, parla anche di questo, e non saranno pochi gli “addetti ai lavori” che si riconosceranno nel personaggio di Alessandro (Alessandro Tiberi), secondo assistente alla regia, alla totale mercé della sua superiore Arianna (Caterina Guzzanti), che invece di insegnargli l’arte, come lui vorrebbe, lo pone sempre in situazioni ai limiti dell’assurdo e del ridicolo.

“In verità – dicono i registi che, affiatatissimi, comunicano come se si trattasse di una persona sola – i tormentoni abbiamo cercato di limarli, perché non volevamo che chi non segue la serie si sentisse escluso. Pensavamo sempre, idealmente, a come avrebbero accolto il film in Francia. Anzi, anche nella scena iniziale, al posto di Ratzinger, doveva esserci Moggi, ma non era abbastanza universale”. Non viene risparmiato nessuno. Nemmeno la grande Margherita Buy, ben parodiata nella sua insicurezza comunicativa da Rosanna Gentili. “Speriamo che la Buy si diverta – dicono ancora i registi – noi volevamo solo dipingere una situazione tipica del set. La cosidetta ‘dittatura dell’insicurezza’, cioè l’essere così fragili da parte di certi attori che diventa spesso un’altra forma di prepotenza. Ma è stata dura scegliere le scene, fosse per noi, avremmo fatto un film di tre ore, noiosissimo”.

Molta l’autoironia dimostrata da Rai Cinema: “Ci hanno subito chiarito che il film avrebbe parlato di noi – dice l’amministratore delegato Paolo del Brocco – i primi cinque minuti abbiamo esitato, ma poi ci siamo divertiti”. E in una scena ‘da cinepanettone’, appunto, una scimmietta viene presentata come il “numero cinque” di Medusa. Anche la politica viene messa alla berlina, sebbene non si tratti di un film satirico: “Speravamo che non cadesse il governo, perché altrimenti le parole del ‘finto Fini’ (Pietro Sermonti) nel film avrebbero avuto un significato diverso”. E in una sequenza lo slogan del PD è “Smile” (sorridi). “Doveva essere ‘Sorry’ – commentano i registi – ovvero ‘ci dispiace'”.

Boris, il pesciolino rosso che, suo malgrado, fa da “consigliere” a Ferretti, come sempre tace e acconsente. E molto probabilmente sono d’accordo anche i precari presenti in sala.

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28 Marzo 2011

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