Fuori concorso al Festival di Roma, Border di Alessio Cremonini è un coraggioso sguardo, da parte di un italiano, alla difficile situazione siriana. La crisi ha causato 100.000 vittime e 2.000.000 di profughi, di cui un milione bambini, rifugiati in Egitto, Turchia, Libano e Giordania. Il film ha intenti anche documentaristici – si basa tra l’altro su una storia vera – ma è pura fiction e anche convincente, soprattutto se si pensa che è stato interamente girato in Italia.
“Non si poteva proprio recarsi sul luogo – racconta il regista – o probabilmente non saremmo qui a raccontarlo. Ma fare cinema è anche questo e per fortuna alcune zone d’Italia sono in grado di replicare perfettamente il paesaggio siriano”. La pellicola segue il viaggio di Aya e Fatima, due giovani sorelle siriane profondamente religiose che vivono a Baniyas, una cittadina sulla costa. Una mattina la loro quotidianità viene spezzata dall’arrivo di Muhammad, un fiancheggiatore di quei ribelli che da mesi combattono contro il governo. Muhammad rivela loro che il marito di Fatima, un ufficiale, ha deciso di disertare dall’esercito e di unirsi all’Esercito Siriano Libero. La conseguenza della sua decisione pone Aya e Fatima davanti un bivio: continuare e vivere nella loro casa a Baniyas e rischiare di esporsi alla vendetta dei servizi segreti e degli shabiha (la milizia che sostiene l’esercito regolare) oppure trovare riparo in Turchia. Le due ragazze scelgono la seconda ipotesi e il giorno stesso lasciano la loro casa accompagnate in auto da Farid, un amico di Muhammad…
“Che c’entro io con la Siria? – spiega Cremonini – C’entro proprio perché sono italiano. Abbiamo in comune il retaggio romano. Mi ha convinto a fare il film aver visto una foto di una famiglia siriano rifugiata in una tomba dell’Impero. Ho pensato che se scoppiasse la guerra in Italia potrebbe capitare una cosa del genere anche alla mia famiglia. E poi ricordiamoci di quanto siamo legati a Damasco, dai papi del medioevo a ‘un certo’ Paolo di Tarso. Siamo solo dall’altra parte del Mediterraneo, chi meglio di noi può raccontare cosa avviene dall’altra parte? Questo non è un film politico né di parte. E’ un film ‘da indignato’. Il protagonista del nostro film, per una legge di cui non nomino i creatori, tanto avete capito di cosa parlo, qui in Italia oggi non ci può venire, sta cercando asilo politico in Svezia. Tutto il mio cast è stato coinvolto nel conflitto: chi ha perso parenti, chi è rimasto menomato. Bisognava parlarne e in Siria non si può fare, per ovvie ragioni il sistema produttivo locale non lo permette. Cercavo delle storie e con la sceneggiatrice Susan Dabbous, anche giornalista sul campo, ci siamo imbattuti in questa. Ne abbiamo adattato il plot, ma è una vicenda reale”. “Per noi è stata una grande opportunità per raccontare la realtà del nostro paese, ci siamo prese il rischio senza temere strumentalizzazioni – dicono le interpreti Sara El Debuch e Dana Keilani – è stata in effetti un’occasione straordinaria e siamo felici di aver partecipato. Abbiamo sofferto per la guerra, perso familiari, amici, le nostre case, venendo magari a scoprire ciò che succedeva in modo shockante, da facebook. Non è stato facile rivivere su schermo certe situazioni, provavamo un mix di tristezza e gioia, perché cercavamo di immedesimarci in chi ha dovuto assistere a spettacoli orribili come torture o accoltellamenti di bambini, ma al contempo eravamo al sicuro su un set, distanti”.
“In Italia abbiamo fortuna – prosegue Cremonini – un adolescente che voglia sapere cosa accadeva durante la Seconda Guerra Mondiale ha molti film a disposizione. In Siria non c’è nessun film, ad esempio, che parli del massacro di Hama, che nel 1982 costò la vita a 20.000 persone, solo calcolando le stime ufficiali”. Per il film non sono stati richiesti finanziamenti pubblici, la sua realizzazione si deve all’operato e all’intuito del produttore Francesco Melzi: “Non me la sentivo, da esordiente, di chiedere soldi allo Stato, dice il regista. E’ un momento in cui si chiudono le corsie d’ospedale, non mi pareva il caso. Ho pensato che se il progetto era giusto – ed ero convinto che lo fosse – avrebbe trovato la sua strada. E infatti: Francesco è stato velocissimo. Ci siamo incontrati una mattina alle 11:00, alle 12:00 gli avevo spiegato il film, alle 16:00 l’accordo c’era. Avevo bisogno di tempi rapidi e non potevo aspettare quelli lenti, per carità comprensibilmente, delle pubbliche commissioni. Chiaramente il film è retrodatato, si ferma all’aprile 2012. Il futuro non potevamo prevederlo. Ora le cose si sono fatte anche più dure”. “Da settembre – conclude la sceneggiatrice Dabbous – la Siria è stata ancor più al centro del dibattito perché era diventato urgentissimo scegliere da che parte stare. Noi abbiamo voluto fare un film che non fosse strumentalizzabile, raccontando una storia cruda che prende il punto di vista di una parte, ma mostra anche l’altra”.
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