Bolgia totale, Colangeli in noir

L'attore ha il ruolo di un ispettore di polizia a pochi mesi dalla pensione nell'opera prima di Matteo Scifoni, in sala dal 3 settembre con ASAP Cinema Network


Esordio “di genere” per Matteo Scifoni: cubetti di ghiaccio piombano cristallini e rumorosi in un bicchiere che sta per essere riempito da un superalcolico, ingrediente – tra gli altri – di quotidiano stordimento per Quinto Cruciani – Giorgio Colangeli – sessantenne ispettore di polizia, a otto mesi dalla pensione; così inizia il racconto, che apre con l’alternarsi di quattro piccole sequenze di premessa biografica, in cui s’inquadrano – sia tecnicamente, che psicologicamente – le due personalità cardine della storia: Cruciani appunto, e il giovane Michele Loi, Domenico Diele (già Luca Pastore nella serie tv 1992), accanto a Gianmarco Tognazzi, l’ispettore capo. Così, tra poliziottesco italiano, gangster movie americano e western, si snoda Bolgia totale, che non manca di citazioni esplicite e volute (Cruciani – maestro di scasso de I soliti ignoti –  Bonanza, etc), sia di “vocabolario” che visive (primissimi piani o spazi sconfinati, propri del western; tagli e immagini “alla P.T.Anderson”, etc), ma che non affida solo a queste l’impatto, anzi gradevolmente sa spalmare ciò per tutta la durata senza che risultino stucchevoli o didattiche, il tutto concesso da una buona sceneggiatura ma, soprattutto, da una puntuale e empatica scrittura di Cruciani e Loi, il cui primo incontro/scontro vede il ragazzo chiamare “nonno” l’ispettore – un’accezione di disprezzo, iniziale – e quest’ultimo concedergli una sigaretta, che gli infila nel taschino della camicia, come cucita dalla parte del cuore.  

L’intensità precisa dei personaggi, la fotografia consapevole dei generi d’ispirazione e del noir in essere (dop è Ferran Paredes Rubio, già autore della fotografia di Perez, Zoran …), l’intenzione interpretativa, soprattutto di Giorgio Colangeli – “nella mia filmografia è stato un ruolo abbastanza unico; mi piaceva essere un antieroe, mosso da un obiettivo minimo, cioè salvarsi la pensione, la sopravvivenza” –, dominano/predominano sulla storia, amalgamando bene l’aspetto prettamente noir – la violenza esplicita, ma mai gratuita, anzi ben dosata e non inutilmente pudica – con le questioni personali, inevitabilmente inanellate, ma così particolari da riuscire a ritagliarsi un proprio riconoscibile spazio, che non passa in fretta nel dimenticatoio perché sovrastato da più “scenografici” visi ustionati dentro friggitrici o da dita mozzate all’improvviso, anzi rimanendo impresse per la delicatezza, che procede per contrasto: Cruciani, solo, vecchio poliziotto acciaccato e malmesso – una per tutte: di grande malinconia è lo strappo della stringa consumata che gli resta tra le dita, in una mattina in cui invece dovrebbe correre, essere in azione – s’intuisce, a sua insaputa, essere pronto per una nuova… vita; originale, erotico e romantico, è invece lo scambio d’amore nei “dialoghi” tra Loi e la sua ritrovata donna del cuore, una spogliarellista muta, Xhilda Lapardhaja: la non-voce, non scontata, amplifica le sfumature emotive tutte. L’assenza è un altro personaggio, un’assenza fisica che forse è coscienza, dunque presenza: ritorna più volte una voce, maschile, che accompagna Michele Loi, quella di “…un eroe western”, non necessariamente l’Eastwood che pare essere, che gli fa da mentore interiore.

Il costo del film dichiarato dalla produzione – 130.000 euro – e la messa in scena conseguente, attestano la grande dignità di questa opera prima, capace di costruzione narrativa e pregevole per l’ottimizzazione della realizzazione. Bolgia totale, in una frase e in una sequenza: “Io e te siamo uguali, è solo una questione di sopravvivenza”; Cruciani e Loi, su una spianata deserta, tra cemento e nuvole. 

autore
31 Agosto 2015

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