Condivisione delle password, abbonamenti considerati troppo cari dai consumatori, una concorrenza feroce. Anche laddove in passato avevano giurato “no ads ever” – ovvero ‘non introdurremo mai la pubblicità” – alcune piattaforme streaming iniziano a cedere. È infatti ormai in atto una piccola grande rivoluzione: il 3 novembre scorso Netflix ha introdotto (anche) in Italia una nuova formula di abbonamento e anche Disney+ ha annunciato una mossa simile a breve: dall’8 dicembre, per l’azienda di Topolino, il cambiamento riguarderà il mercato Usa, in futuro prevedibilmente anche quello italiano. Con il nuovo “Piano base con pubblicità” ci si potrà abbonare a Netflix al costo di 5,49 € al mese – 2,50 € in meno rispetto al costo del piano base senza pubblicità – ma accettando, appunto, di subire l’invadenza degli spot. L’interruzione è prevista per circa 4 minuti ogni ora e gli spot sono da 15 o 30 secondi, senza la possibilità di saltare o mandare avanti velocemente. In più, avverte la piattaforma, “alcuni film o serie TV non sono disponibili per la visione con il piano Base con pubblicità a causa di limitazioni delle licenze. Questi titoli sono contrassegnati dall’icona del lucchetto”. Disney+ attuerà una politica diversa: chi usufruisce del piano base inizierà a vedere gli spot pubblicitari, mentre per evitarli si dovrà passare al Premium (pagando di più) e a quel punto si potrà anche effettuare il download.
Niente più binge watching indisturbato, quindi, ma per chi sceglie la soluzione più economica si assiste al ritorno a una fruizione simile a quella delle tv generaliste. Quale sarà da noi l’impatto di questo cambiamento? Cinecittà News lo ha chiesto a Giancarlo Leone, presidente APA (Associazione Produttori Audiovisivi) e a Francesco Bruni, regista della serie Tutto chiede salvezza, attualmente su Netflix.
“Sulla questione bisogna esaminare tre punti di vista: quello delle piattaforme, quello degli utenti e quello della concorrenza – premette Leone – Data la concorrenza crescente nel settore, per le piattaforme sono necessarie operazioni commerciali di marketing alternative e l’introduzione della pubblicità è una strategia per incrementare il numero di abbonati riducendo il costo del singolo abbonamento”. Per quel che riguarda gli utenti, continua il presidente APA, “per chi è già abituato a fruire pubblicità sui canali lineari, questa soluzione è un incentivo ad abbonarsi per un pubblico che vuole risparmiare ed è pronto ad accettare un tot di minuti l’ora di spot”. Infine, per la concorrenza che vive di pubblicità, ovvero gli altri tipi di tv, “ci sarà un concorrente in più e le opzioni sono due: o si allarga la platea di investitori o si assisterà a una contrazione potenziale degli incassi. Va detto però che una direttiva europea dello scorso anno, recepita dal governo, ha consentito un allargamento delle fasce orarie di raccolta pubblicitaria per le tv lineari. Ma a un beneficio che si è creato, ora si affianca una situazione di mercato con maggiore concorrenza. In tutto ciò – sottolinea Leone – devo notare con una certa preoccupazione che ci sarà una contrazione della possibilità di raccolta pubblicitaria per Rai, ora con un tetto al 7% e dal 2023 al 6%. Fa un po’ impressione che ci sia un soggetto in condizioni del tutto opposte, e che sia il servizio pubblico”.
“Mi risultava che dopo un periodo di crisi nei mesi scorsi, Netflix fosse in ripresa – dice Francesco Bruni – Sull’introduzione delle pubblicità ho un giudizio contraddittorio: le piattaforme avevano proprio il pregio di non avere la pubblicità durante la fruizione, ma è anche vero che per gli utenti la visione può essere comunque frammentaria. In tanti sono abituati a interrompere la visione per le loro faccende, perciò magari si può sfruttare in questo modo lo stop imposto dagli spot. Mi sembra comunque meno grave della pubblicità sulla tv generalista o al cinema prima dei film, spesso molto invadente e lunga”. Il regista di Scialla aggiunge un’annotazione: “Mi sembra interessante comunque che questo cambiamento obblighi le piattaforme a divulgare i dati di ascolto, mentre finora hanno comunicato solo le classifiche senza nessuna controprova”. “Questo – aggiunge Leone – potrebbe alimentare un circuito virtuoso di cui tutti sentiamo l’esigenza. Tanto più la sentiranno coloro che investiranno in pubblicità, abituati a lavorare sulla base di risultati certificati, che al momento non ci sono”.
Ma non è fastidioso per un autore sapere che la sua serie o il suo film vengono interrotti dalle pubblicità anche in streaming? “Non mi disturba più di tanto – risponde Bruni – Ogni tanto qualcuno, pensando di farmi contento, mi dice che sta vedendo Tutto chiede salvezza, ma poi magari capisco che lo fa con un cellulare poggiato sul tavolo in un bar o un pc in un soggiorno in piena luce: ormai ho fatto pace con l’idea che la qualità artistica del lavoro sulla fotografia e sul suono, in questa modalità di fruizione, venga compromessa a favore solo della narrazione”. “Non credo che questo cambiamento allontanerà i registi dalle piattaforme – spiega poi Leone – la fruizione pubblicitaria nell’offerta televisiva c’è sempre stata, grandi opere vengono trasmesse dal servizio pubblico con la pubblicità e credo che in questo momento tutto ciò che aiuta la circolazione e la possibilità di investire sui contenuti sia un bene per il mondo culturale e artistico che c’è dietro. Chiaramente le interruzioni pubblicitarie dovranno essere regolate nella maniera più corretta e seria, ma le serie tv hanno già una pezzatura che consente agevolmente l’inserimento degli spot e, a livello cinematografico, c’è una legge che prevede in che modo possono essere interrotti i film. Non dimentichiamo nemmeno che c’è una legge dello Stato che prevede con molta precisione, per i fornitori dei servizi media, delle quote obbligatorie di investimento sul prodotto europeo e italiano sulla base dei ricavi”.
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