Bellocchio: “Di Aldo Moro m’interessava anche l’infelicità missionaria”

L'autore piacentino, nella sezione Cannes Première, presenta "Esterno Notte", tornando su Aldo Moro: protagonista Fabrizio Gifuni. Esce al cinema il 18/5 e il 9/6 e poi su Rai1 in autunno


CANNES – “Nella ricorrenza del quarantennale (1978-2018, dall’omicidio di Aldo Moro, ndr) mi è tornato il desiderio di rappresentarlo in modo diverso, esterno appunto. Quello che potrà interessare, anche alle nuove generazioni, non me lo sono posto: mi sono fidato di quello che volevo contribuire a fare io. La serie, rispetto al film (Buongiorno, notte, 2003, dello stesso autore, nrd) è molto meno ideologica, anche perché è passato dell’altro tempo. Io non voglio perdonare tutti, ma non c’è odio verso nessuno e mi spiace ci sia chi ha interpretato questo come un accanimento da avvoltoi contro quegli anni”, dice Marco Bellocchio, della sua prima serie tvEsterno Notte, con cui torna sul caso Moro, dopo quasi vent’anni dalla produzione del suo film dedicato allo stesso soggetto.

La serie passa nella sezione Cannes Première, per poi arrivare al cinema in due parti (in 300 copie confermate): la prima il 18 maggio, la seconda il 9 giugno, distribuzione Lucky Red; e, infine, sarà trasmessa, nell’originale formato seriale su Rai1, in autunno. 

Aldo Moro ha il corpo, il volto, la mimica, le rughe, il tempo di movimento e di respiro, la flemma e lo spirito di Fabrizio Gifuni, che restituisce un Moro specchiato a quello reale, figura – quello dello statista – con cui l’attore s’è già misurato, due volte: al cinema con Romanzo di una strage (2012) e poi a teatro in Con il vostro irridente silenzio – spettacolo intorno al Memoriale -, di cui Gifuni ha tutta la paternità. “È un’opera cinematografica”, Esterno Notte. “E lo sguardo di Marco è un’opportunità di crescita, uno scarto d’immaginazione. Sono stato colpito dalla costruzione, semplice ma efficacissima: restituire più punti di vista è cosa straordinariamente importante, perché sei costretto a rivedere la Storia, è un’illuminazione”. 

“Nel film c’era il personaggio di Maya Sansa, che fa addormentare gli altri brigatisti, e così permette la liberazione: qui, per me era legata al Memoriale, che mi aveva molto ispirato, e che mi hanno fatto conoscere i libri di Gotor e lo spettacolo di Fabrizio; nello scritto c’è il passaggio misterioso in cui Moro ringrazia le BR per avergli salvato la vita. Nella serie, la liberazione ci piaceva inserirla come una possibilità, più che come aspetto sorprendente: infatti è collocata all’inizio. È come se la sopravvivenza fosse più legata al personaggio, mentre nel film più legata a una speranza”, spiega l’autore bobbiese. 

6 episodi, una circolarità tra il primo e l’ultimo, da Moro a Moro, passando per Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), papa Paolo VI (Toni Servillo), Eleonora Moro, la moglie (Margherita Buy) e la brigatista Adriana Faranda (Daniela Marra): Bellocchio – con i co-sceneggiatori, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino – ha scelto di raccontare appunto secondo quell’esterno evocato nel titolo, ovvero la vicenda dai punti di vista di alcune figure umane, non meno profili di potere, alcuni, che hanno circuitato intorno a quello dello statista nelle giornate tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, dal rapimento all’omicidio. “Era naturale stare sui personaggi, li osservi da vicino; anche in montaggio, abbiamo lavorato standogli addosso: per esempio, nel confronto Buy-Zaccagnini (Gigio Alberti), c’è una durezza in cui lei proprio cambia voce. Di Andreotti – l’attore (Fabrizio Contri) è un grande, lo voglio dire -, di lui che si sente male (alla notizia del rapimento), lo lessi in un libro: ‘corse al bagno’. Ecco, magari non in quel modo (come nella serie: vomitando, ndr), esempio di come la fantasia narrativa possa andare oltre. Poi, l’ala politica allora era qualcosa di molto importante, vivevamo nelle utopie politiche, seppur stessero tramontando. Moro ha dimostrato con discrezione e sorriso democristiano di essere un vero riformista, per cui ha pagato con la vita”, continua il regista, che ha restituito, inoltre, anche sfumature, tutt’altro che secondarie, delle esistenze intime dei personaggi, infatti: “nella documentazione s’è dedotta un’infelicità dimestica: Moro stesso ne parla (a Cossiga) come rinuncia nel nome della politica. Questa infelicità missionaria m’interessava”. E comunque, rispetto alla presenza, palesata ma con pesi differenti, di altre figure politiche, come quella di Enrico Berlinguer, Bellocchio precisa: “Non c’è stata nessuna censura, abbiamo fatto una scelta”; così come, sollecitato sulle recenti dichiarazioni di Maria Fida Moro, figlia di Aldo, che ha parlato di “tortura” e non di “arte”, riferendosi all’uso e alla narrazione della figura di suo padre, Marco Bellocchio dice: “Capisco il dolore però lei pensa che nessuno debba parlare del papà, che sia un suo possesso, e io non sono d’accordo. Credo noi abbiamo rappresentato la famiglia con rispetto, ma anche con amore, affetto. Non voglio entrare in polemica, assolutamente”. 

Ancora, del suo Paolo VI, Toni Servillo racconta: “Mi ha sempre affascinato, del cinema di Bellocchio con base storica reale, il suo segno, quello proprio delle opere d’arte: è capace di regalare allo spettatore un’avventura conoscitiva, fa riflettere su fatti reali con originalità di lettura e lascia autonomia di pensiero. Sono felice di partecipare a un film di 6 ore, contro la cultura del frammento; ci sono film che devono turbare, scuotere il pubblico, aspetti qui restituiti nella qualità espressiva del film”. Queste le parole dell’interprete di quel Papa che ha celebrato i funerali di Stato di Aldo Moro, che avvennero senza la presenza della famiglia, ma soprattutto senza la presenza del corpo di Moro: “È stata una grande messa in scena in cui i poteri si rappresentano, con la mancanza del personaggio principale. Comunque, non ho guardato con accanimento alla figura storica del pontefice. M’interessava dare una dimensione conflittuale tra la misericordia e il senso di responsabilità: Paolo VI si muove in maniera drammatica tra secolarizzazione e misericordia appunto, tanto da trovar difficoltà nel rintracciare le parole quando decide di rivolgersi direttamente alle BR, per cui interpella un parroco di provincia (Paolo Pierobon)”.  

“È storia. La famiglia decise per un funerale privato: la stessa immagine è inserita, con musica dei Pink Floyd, nel film: là concludeva”, ricorda Bellocchio che, tra le altre, ha scelto di girare un’altra scena particolarmente simbolica, una via crucis, sul set dell’Antica Roma degli Studi di Cinecittà

Come rinnova di ricordare Gifuni: “Moro non voleva fossero funerali di Stato, lo scrisse. I funerali senza il corpo permettono sia un po’ vero dire che si tratti del funerale che un Paese fa a se stesso. È stata una rappresentazione plastica di un lutto nazionale. Sono stati funerali diventati poi simbolo di quelli di molti: di Paolo IV, di Berlinguer, come un grande collasso collettivo”. Ma in generale, si chiede Gifuni: “Perché quella storia – la vicenda di Aldo Moro – è stata rimossa? Cosa ci è successo? Perché abbiamo voluto dimenticare quelle carte, seppur diventare pubbliche? Il Memoriale è stato un flusso di pensieri per me utile, perché il punto di vista interno. Anche nelle generazioni successive, è come se ci fosse stata una rimozione collettiva di una pagina tragica, come se fosse una storia che non ci riguardasse. La vicenda Moro non è comprensibile se levata da quel contesto: lo scudo della linea della fermezza non regge perché Moro sapeva che non era mai stata applicata prima, così dopo. È stato un uomo che si è spinto troppo oltre, ha anticipato di 15/20 anni quello che sarebbero stati poi gli Anni ’90”. 

Tra i film che hanno fotografato uno spaccato peculiare della politica: “C’è anche Il divo, che racconta in un altro modo una classe politica: ci sono vari modi per raccontare lo stesso episodio. Io credo che il tempo in sceneggiatura – e nella fase delle riprese – sia importante, per capire e scoprire… Il ri-partire di Esterno Notte fa stare sulla storia con una linearità interrotta, che ne aggiunge l’intenzione: così è stato sin dall’inizio in scrittura. Il ri-partire è una tecnica classica, qui molto utile”, precisa Bellocchio, alla sua serie prima “e ultima (ride, ndr): sono facili le battute. L’idea del racconto si è inserita nella forma di serie perché s’è capito che per una narrazione molto esterna fosse necessaria una durata che non fosse quella di un film. Fin da subito, Moro lo vediamo oggettivamente e poi lo vediamo inabissarsi nella scomparsa, e quindi si sta sugli altri, per poi tornare: prima è stata forma, e poi serie”. 

“Altri” tra cui spiccano i protagonisti di tre episodi dei quattro “di mezzo”, oltre al Papa di Servillo, ci sono l’Eleonora Moro di Margherita Buy, per cui è stato: “Un sogno lavorare con Bellocchio: motivo di frustrazione, rabbia, perché non semplicissimo ma bellissimo. Un momento personale di grande crescita”; il Francesco Cossiga di Fausto Russo Alesi, allora ministro degli Interni, zenit dell’ambiguità, come l’ha efficacemente definito qualche giornalista, per cui Esterno Notte è stato “Un viaggio immersivo. Il ruolo è sfaccettato: Marco mi ha guidato ad attraversare le sfaccettature, questo muoversi quasi tra due mondi è stato un grande viaggio attorale e dentro una vicenda dolorosa. Sono rimasto spiazzato dalla potenza della visione”; e la brigatista Faranda, a cui si è data Daniela Marra: “Marco mi ha affidato di percorrere il conflitto. Lei è una donna che rinuncia ad un’identità individuale, per abbracciare quella collettiva; c’è la presa di coscienza del fallimento e il paradosso del rivoluzionario che si trova dentro le dinamiche che combatteva. Il focus da cui è germinato il conflitto è stata la rinuncia, sin da quella della figlia, per cui poi s’innesca l’odiare sempre di più, per iniziare la lotta armata e cominciare un mondo migliore”. 

“È un mio desiderio professionale e culturale far misurare maestri del cinema con la serialità. Questa idea poteva essere solo una serie. La serialità è uno strumento narrativo con la stessa nobiltà del film e può andare al cinema, anche se serie. Ringrazio Rai per l’unicità e l’ambizione della sfida verso il pubblico generalista di Rai Uno”, dice Lorenzo Mieli, produttore per The Apartment. 

“Marco aveva in mente un film, esterno alla prigione. È stato affascinante lavorare su un progetto che ti obbliga anche produttivamente a stare su ‘6 film’. È stato interessante applicare un metodo cinematografico ad una serie” per Simone Gattoni – Kovac Film.   

 

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