SIRACUSA – Uno dei volti più amati della televisione italiana, soprattutto quella in streaming, da Suburra – La serie a Bang Bang Baby, ma anche del cinema con il ruolo in Favolacce, che le è valso la candidatura ai David di Donatello. Barbara Chichiarelli arriva all’Ortigia Film Festival per conversare con il pubblico siciliano riguardo alla sua esperienza su The Good Mothers, fenomeno seriale dell’ultima stagione, disponibile su Disney+ dopo la vittoria alla Berlinale Series, sezione che è stata cancellata dal festival berlinese, almeno momentaneamente. A breve la vedremo nell’ampio cast dell’attesissima M. – Il figlio del secolo, serie interamente girata a Cinecittà tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati, vincitore del Premio Strega.
Barbara Chichiarelli, stasera davanti al pubblico di Ortigia potrà parlare di The Good Mothers, serie che è stata la prima e, probabilmente, ultima vincitrice del Berlinale Series. Vi aspettavate questo successo?
Non ci aspettavamo questo successo, ma eravamo sicuri di raccontare delle storie in qualche modo inedite. A parte la storia di Lea Garofalo, su cui era già stato fatto il film di Giordana. Le altre storie erano sulla stessa scia, ma inedite. Stavamo andando a raccontare un pezzo d’Italia e anche un pezzo di cultura. Una cultura di un certo tipo, chiaramente, quella ‘ndranghetista. Consapevoli lo siamo stati ancora di più quando lo abbiamo presentato in Italia. Io per motivi di lavoro non sono potuta andare a Berlino, dove credo che abbia avuto successo anche perché per i tedeschi è un fenomeno non dico misconosciuto, ma ancora da capire. Sicuramente l’interesse internazionale era anche per questo, perché andavamo in qualche modo a decodificare e a raccontare per immagini delle dinamiche che non si conoscono in Italia, tanto più all’estero.
Cosa speri abbia imparato il pubblico, in particolare quello del Sud Italia?
Che questo racconto abbia tolto un velo rispetto ad alcune dinamiche che apparentemente non sembrerebbero violente ma che lo sono. È una serie un po’ claustrofobica che – a differenza magari di come è stata raccontata la criminalità in Italia, attraverso scene d’azione, sparatorie, sangue – racconta un altro tipo di violenza, che forse è molto più radicata e presente, a più livelli. Spero che passi questo messaggio: ci sono tante forme di violenza, come la violenza psicologica nei confronti di un bambino, che in un qualche modo non può permettersi di non essere così uomo. Spero che faccia riflettere.
È tra le protagoniste delle serie più iconiche di tutte le piattaforme: Netflix, Disney+, Paramount+, Prime Video. Perché le serie in questo momento sono il luogo in cui le donne vengono raccontate meglio?
C’è il fattore tempo, ovvero la narrazione non è racchiusa in un’ora e mezza – due ore, che è il tempo medio di un film. Questo permette di sviluppare maggiormente le storie e i personaggi. Stiamo vivendo un cambiamento epocale che non so dove porterà. Sappiamo che le sale sono in crisi da anni e che la pandemia ha dato il colpo di grazia. Stiamo andando verso un altro tipo di fruizione e le serie ne sono un emblema. È come se ci fosse bisogno di accompagnarsi con questi personaggi per un po’ più di tempo. Il numero elevato di piattaforme porta, per un mero calcolo matematico, a un numero elevato di prodotti. Tra i più disparati. E dunque c’è spazio per una narrazione femminile in cui non ci sono più solo i protagonisti maschili. Penso che sia solo una proporzione matematica.
Non sente la mancanza di un ruolo da protagonista al cinema?
È una cosa che mi piacerebbe fare, ma questo è un momento un po’ complicato. Si fanno pochi film, ci sono poche protagoniste donne e in qualche modo non si rischia. Nel caso degli attori e delle attrici la situazione è così complessa e sono così tante le motivazioni per cui vieni scelto o non vieni scelto, che non mi sono mai posta questa questione. È un discorso complesso. Il film è la creatura del regista, è un po’ suo figlio. C’è un investimento dal punto di vista emotivo maggiore, rispetto al regista che invece viene chiamato a dirigere un’operazione seriale. Spero che arriverà il momento.
Recentemente è stato annunciato il cast di M. – Il figlio del secolo, di cui fa parte. Come è stato condividere il set di Cinecittà con Joe Wright?
Non so se posso parlarne, ma sicuramente è stata un’operazione enorme e lo vedrete. È un pezzo fondamentale della storia dell’Italia e credo che raccontarla dal punto di vista di un regista inglese e, soprattutto, da un regista come Joe Wright che con personaggi storici di varia natura si è già rapportato, sia stata una grande opportunità, sia per noi che per lui. Credo anche che abbia dato una luce diversa a questa storia, che l’abbia raccontata in maniera non italiana. Immagino una maggiore lucidità perché non c’è un coinvolgimento emotivo come possiamo averlo noi. Perché qualsiasi persona che vive in Italia ha avuto dai racconti della propria famiglia un nonno, uno zio, un bisnonno che in qualche modo era fascista o ha preso la tessera fascista, o era un partigiano. O di qua o di là le nostre storie familiari sono comunque legate talmente tanto a doppio filo col fascismo che potrebbe mancare un po’ di lucidità. Mentre viceversa, credo che una persona esterna abbia avuto una capacità di raccontare non solo il fascismo, ma i fascismi nel mondo.
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