Per tutti gli anni ’90 e 2000, gli appassionati del cinema horror si sono lamentati della stagnante condizione in cui si era impantanato il genere, con titoli manieristici orientati a un pubblico adolescenziale da far saltare sulla poltrona con jumpscare e mostri dall’aspetto terrificante, utili più per il marketing che per la narrazione. Negli ultimi anni, però, si sta diffondendo una nuova forma di cinema horror, definito prestige horror o art house horror oppure ancora elevated horror. Un genere che ibrida le classiche dinamiche dell’orrore con toni più maturi e un taglio squisitamente autoriale che rifugge dalle facili soluzioni, con film che sfruttano l’arte cinematografica per generare inquietudine più che semplice spavento. Fondamentale la componente psicologica dei personaggi, nel tentativo di scavare negli aspetti più torbidi che contraddistinguono l’essere umano: i traumi, i tabù, le fobie.
Tre autori in particolare si stanno distinguendo: Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele. Sono tutti relativamente giovani, hanno realizzato recentemente il loro terzo lungometraggio e sono tutti nati a New York. Una collocazione geografica che può sembrare casuale, ma che lo è fino a un certo punto: la Grande Mela è, infatti, il luogo dove è stata fondata la casa di produzione A24, che ha distribuito e/o prodotto alcuni dei film degli autori sopracitati e che è considerata il punto di riferimento per questo nuovo genere, avendo realizzato anche le opere di registi come Valdimar Jóhannsson (Lamb) e Ti West (la trilogia di X).
Con l’uscita di Beau ha paura – dal 27 aprile nelle sale – si completa il trittico iniziale della cinematografia di Ari Aster, che, unito a quelli di Eggers e Peele, traccia un quadro molto dettagliato sullo stato attuale di questo “nuovo” genere, probabilmente uno dei più interessanti e promettenti della cinematografia contemporanea. Seppure con approcci diversi e con traiettorie autoriali del tutto autonome, le opere di questi registi stanno ridefinendo il rapporto tra cinema di genere e d’autore.
Il fatto che l’accoglienza del nuovo colossale lungometraggio (dura 179 minuti) con Joaquin Phoenix sia stata tutt’altro che unanime non scalfisce il potenziale di un autore che, dopo i successi di pubblico e critica di Hereditary e Midsommar, ha avuto a soli 35 anni carta bianca per produrre un film totalmente fuori dalle logiche commerciali, con una dinamica simile a quella avvenuta per il Babylon di Damien Chazelle. Nella breve filmografia di Aster si legge una chiara evoluzione: mentre Hereditary – Le radici del male si presentava come un classico film horror sulle possessioni demoniache, ma aveva il coraggio di affrontare tematiche complesse come i rapporti familiari e il lutto, offrendo soluzioni registiche memorabili e scelte narrative mai banali, Midsommar – Il villaggio dei dannati abbandonava le dinamiche orrorifiche – il film sarebbe dovuto essere un vero e proprio slasher – per abbracciare quelle del thriller psicologico. Infine, con Beau ha paura, si percepisce una totale liberazione autoriale e un’ibridazione di generi che hanno portato forse un po’ a strafare, nel più classico “passo più lungo della gamba” che ha fatto storcere il naso ad alcuni.
Ma il bello del cinema d’autore è che non è fatto per piacere a tutti, ma è chiamato anzi a spingere al limite lo spettatore, manipolando, se necessario, il genere che si sceglie di utilizzare. E chi più di Robert Eggers può parlare di sperimentazione? L’unico punto in comune tra i suoi primi tre lungometraggi – oltre al rigoroso stile narrativo – è il forte legame alle tematiche ancestrali che scavano nei miti e nella psicologia umana. Per il resto tutto è possibile: dall’abbacinante esordio di The VVitch, con il suo attacco all’estremismo religioso, passando per il coraggioso The Lighthouse, un viaggio in bianco e nero nella mente ricolmo di riferimenti mitologici, fino ad arrivare a The Northman, rivisitazione dell’originale versione norrena di Amleto che ci porta al cuore pulsante di violenza della sua leggenda.
Molto più lineare e coerente è il percorso di Jordan Peele, che con il suo esordio Scappa – Get Out è stato più di tutti capace di lasciare il segno nel cinema che conta, aggiudicandosi l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale nel 2018. La scelta di raccontare storie che possono essere lette come metafore della condizione degli afro-americani in USA è il marchio di fabbrica dell’autore, che prende gli strumenti narrativi tipici del thriller e dell’horror, li infarcisce di elementi satirici e li utilizza come appigli per acchiappare lo spettatore e non lasciarlo andare mai più. Seppure lontano dai clamori ottenuti dal sorprendente Get Out, Us e Nope hanno dimostrato tutti i mezzi espressivi di un regista – noto inizialmente per il suo mestiere di attore – che non solo ha tanto da dire, ma sa anche come raccontarlo.
Non sappiamo cosa riserveranno nel futuro questi tre autori newyorkesi, così simili eppure così diversi. Se continueranno a far evolvere generi bistrattati, impreziosendoli di contenuti ed idee, oppure no. Dal canto nostro, siamo pronti a farci sorprendere, ma anche spaventare, inquietare, stravolgere. Di certo, ne sentiremo parlare ancora a lungo.
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