Asia Argento: “Incompresa, come tutti”

L'autrice, che porta il suo terzo film da regista in UCR, nega che sia un'autobiografia o un'opera terapeutica. "Tutti i bambini subiscono ingiustizie"


CANNES – “Come diceva  Fellini, la perla è l’autobiografia dell’ostrica”. Esordisce così Asia Argento parlando con i giornalisti di Incompresa, sua terza regia, selezionata in Un Certain Regard. Intorno al film, scritto con Barbara Alberti, c’è una certa aria di morbosa curiosità per capire quanto sia legata alla sua esperienza diretta di figlia d’arte la vicenda di Aria (Giulia Salerno), una ragazzina di 9 anni sballottata da una parte all’altra di Roma dalle liti sempre più accese dei genitori che infatti finiscono per separarsi. La madre (Charlotte Gaisnbourg) è una pianista di scarso successo che si dà molto da fare con gli uomini, il padre (Gabriel Garko) è un attore famoso ma estremamente superstizioso che ha occhi solo per la primogenita e intrattiene con lei un rapporto al limite dell’incestuoso. Aria infatti ha tre sorelle – Lucrezia, Donatina e Angelica – tutte più amate e coccolate di lei che si consola con la compagnia di un gatto nero. Il gatto la segue, nei suoi frequenti vagabondaggi da una casa all’altra, dentro una gabbietta, mentre l’amica del cuore, da cui è inseparabile, finisce per tradirla e anche i rapporti con gli altri coetanei non sono idilliaci. “Incompresa – come dice la regista, che a Cannes è arrivata con un look molto maschile, capelli corti e giubbotto di pelle nera – è un romanzo di formazione al contrario in cui sono soprattutto gli adulti che hanno bisogno di essere formati”. Prodotto da Wildside e Paradis con Rai Cinema e il sostegno della Regione Lazio e della Film Commission Torino Piemonte, Incompresa uscirà il 5 giugno con Good Films.

Cosa risponde a chi si affanna a cercare corrispondenze con la sua autobiografia, il rapporto con i suoi genitori Dario Argento e Daria Nicolodi?
Che questo film non è un’autobiografia e non è un’autoanalisi, anche se sicuramente è un film personale. Se avessi voluto evocare i miei genitori avrei fatto un documentario come Capturing the Friedmans di Andrew Jarecki. Ma, forse perché mi avvicino ai 40 anni, ho avuto voglia di sfogliare un album di ricordi con fotografie di trent’anni fa, della metà degli anni ’80, quando anch’io ero piccola. Con il direttore della fotografia, Nicola Pecorini, ci siamo ispirati alle Polaroid di allora.

Da cosa siete partite con la sceneggiatrice Barbara Alberti?
Dall’immagine di una bambina cacciata dai genitori che si trova in un parcheggio a Prati con un gatto e una valigia. In realtà volevo scrivere un film per ragazzi. Giulia, la protagonista del film, è vittima dell’egoismo degli adulti. Un’esperienza comune a molti bambini. Essere incompresi da piccoli capita a tutti, anche coloro che sostengono di aver avuto un’infanzia perfetta, hanno subìto delle ingiustizie, ma forse rimettono in sesto i propri ricordi per evitare di ammetterlo. Ci sono ingiustizie piccole e ingiustizie grandi, impossibili da superare per alcune persone, per questo la storia di Incompresa è una storia universale.

Lei però ci mostra una famiglia di artisti, una famiglia sui generis. Il suo discorso potrebbe valere anche per famiglie più banali?
Certo, soprattutto volevo raccontare la famiglia diversamente da come viene di solito descritta in Italia. Ma non mostrando una di quelle grandi tragedie che fanno notizia, piuttosto le piccole mancanze che i bambini comunque subiscono a casa e scuola.

Come ha lavorato con i piccoli attori?
Insegno recitazione ai bambini da 12 anni, per me non è un problema lavorare con loro. Hanno un’anima pura e profonda e non bisogna ricostruire come accade con gli adulti.

Com’è stato dirigere sua figlia, la dodicenne Anna Lou?
È stata lei a chiedermi di fare il film. Nei due mesi prima delle riprese tutti i bambini del film passavano i week end con noi, così hanno formato un gruppo e ho potuto osservarli e modificare la sceneggiatura in base a quello che capivo di loro. La maggior parte dei bambini non aveva mai recitato. Per Anna Lou è stato tutto molto naturale. Lei è la quinta generazione che fa cinema nella mia famiglia, a partire dal mio trisnonno.

Perché non ha tenuto per sé il ruolo della madre?
Perché non voglio più recitare, essere attrice non mi dà più soddisfazioni e non credo di essere brava. L’ho fatto per trent’anni ma solo perché mi ci sono trovata. Però mi è servito come scuola di regia lavorare con grandi registi, non stavo certo nella roulotte a leggere i giornali, passavo tutta la giornata sul set a studiare. Essere regista è una enorme gioia, mi fa sentire un tramite di qualcosa che arriva da lontano, come attraverso un cancello aperto.

Lei torna a Cannes per la seconda volta da regista.
Qui ci sono i migliori film dell’anno. Stare qui è come aspettare un figlio e farlo nascere nel miglior ospedale del mondo. La prima volta sono venuta a 16 anni con Le amiche del cuore di Michele Placido. Ricordo che avevo un vestito improbabile. Ma in realtà non è cambiato molto, tornare qui è come tornare a casa.

Che rapporto ha con “Incompreso” di Luigi Comencini, un film del 1967 in qualche modo leggendario.
È un film che mi aveva scioccato ed è stato così anche per Barbara. Tutt’oggi mi fa singhiozzare, quando lo vidi da bambina piansi tantissimo. Esprime bene la ferita universale dell’infanzia e credo che ognuno di noi si sia identificato. Ma i parallelismi tra i due film, a parte il titolo, finiscono qui. Nel caso di Comencini il ragazzino è un rompipalle tremendo che richiede attenzioni, seppure negative, mentre Giulia cerca di cavarsela da sola, con la sua intelligenza. Gli adulti che la circondano sono troppo egocentrici per sostenerla e lei, diversamente dalle sorelle, non accetta di diventare il giocattolo dei suoi. 

Un’altra differenza è nel tono, sicuramente meno melodrammatico.
Aria non vuole fare la vittima. Soffre ma è forte, ha dell’amor proprio e non si sente responsabile di ciò che le accade. 

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22 Maggio 2014

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