TORINO – È sullo sfondo dell’ultimo giorno dell’anno, in un sovrapporsi continuo di ricordi e realtà, che si muovono le protagoniste di Arianna di Alessandro Scippa, e di Buon anno Sarajevo, di Aida Begic. Il primo passato al Tff in Onde, il secondo presentato nella sezione dedicata al TorinoFilmLab. Due piccoli film (sono infatti entrambi autoprodotti) che raccontano storie molto diverse, ma in cui lo sguardo fortemente soggettivo è il mezzo attraverso il quale emergono, da una parte le ferite personali di un passato che s’impone quasi come un destino, dall’altra i traumi di un guerra che ha cancellato qualsiasi desiderio di futuro.
“Arianna nasce da un’immagine forte – spiega Scippa, sceneggiatore approdato al cinema di finzione dopo alcuni documentari – dall’idea della donna vista come un’isola, una terra di approdo e di fuga da parte degli uomini. È il mito di Teseo, che però nel mio film diventa il simbolo di una condizione esistenziale in cui uomini e donne sembrano vivere un continuo conflitto e in cui il momento dell’abbandono riapre un dialogo doloroso con il proprio passato”. Bianco e nero, una fotografia sovraesposta, dialoghi ridotti al minimo: è così che il film ricostruisce la storia di Nanni (interpretato da Nanni Mayer già protagonista del documentario Nanni e le api) e di Arianna (Giovanna Giuliani) raccontati negli ultimi giorni del loro rapporto attraverso piccole scene di vita quotidiana, attraverso i loro lunghi silenzi. “Volevo ricreare la sensazione di una realtà sospesa – continua Scippa – dilatata nel tempo, perché quello che racconto è soprattutto un tempo interiore. Per questo motivo ho anche cercato di rappresentare l’isola sui cui si svolge questa storia come un luogo non definito e non riconoscibile”. E Procida – location principale del film – effettivamente non si riconosce, lasciando che lo spazio intorno ai personaggi sia effettivamente uno spazio simbolico. “Questo è un film di cui io sono molto orgoglioso – dichiara il regista – nato grazie alla partecipazione di un piccolo gruppo di lavoro fatto di professionisti e amici che hanno condiviso con me l’idea di un progetto da realizzarsi in poco tempo e con pochi mezzi. Abbiamo girato senza una vera e propria sceneggiatura, e per me, che vivo facendo lo sceneggiatore è stata una sfida, una liberazione. E grazie a questo spirito punk: fare con quello che si ha a disposizione siamo riusciti a vivere un’interessantissima e rara esperienza di libertà.
Transizione e metamorfosi anche per quanto riguarda il film di Aida Begic, già regista di Snijeg – incentrato sulle vicende di un gruppo di donne che perdono i loro uomini durante i massacri in Bosnia orientale – che torna a parlare del conflitto dell’ex Jugoslavia attraverso la storia di due fratelli orfani, Rahima e Nedim, alle prese con un difficile dopoguerra. “La Bosnia – sottolinea la Begic – sta vivendo da sedici anni un momento di passaggio che non arriva mai a compimento. Ho voluto raccontare proprio questo: la sensazione dominante d’impotenza e l’incapacità di immaginare il futuro. Quasi venti anni dopo la fine della guerra, viviamo ancora in un infinito presente e abbiamo sempre paura di quello che verrà”. Il racconto parte quindi da un piccolo fatto, la rissa fra Nedim e il figlio di un potente del luogo, che, un po’ come in Carnage di Polanski, mette a fuoco un contesto sociale gravemente malato, all’interno del quale i traumi della guerra sono rimaste ferite aperte e in cui a pagare sono soprattutto i più deboli. Rahima e il suo tentativo di prendersi cura del fratello sembrano quindi essere il simbolo di questo eterno presente in cui non si riesce a vedere un orizzonte. Ce lo dice la macchina da presa, costantemente addosso alla protagonista, i lunghi piani sequenza che percorrono insieme a lei uno spazio quasi circolare, in cui Rahima sembra girare a vuoto. E poi ci sono le immagini di guerra, quella vera: brevi ritagli video che si inseriscono nel racconto riproponendo i giorni del conflitto, quando, mentre per strada si combatteva e intorno scoppiavano le bombe, i bambini continuavano a giocare. Ed è proprio l’eco di quegli scoppi a collegare per tutto il film passato e presente: “I fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno creano una straordinaria unità spazio-tempo – spiega Emanuela Piovano, distributrice per l’Italia, con la Kitchenfilm – sono il ricordo sonoro di una tragedia che ha lavorato dentro le persone e che ha lasciato segni inimmaginabili”. È interessante vedere come sia diverso il dopoguerra raccontato in questo film da quello descritto in Italia durante il neorealismo, quando c’era davvero una volontà di ricostruzione e fiducia nel futuro. Un altro elemento importante è poi quello dell’integralismo religioso, che nelle società democratiche ovviamente è inaccettabile, ma che qui si può considerare una risposta al trauma.
La pellicola, dopo essere passata ai festival di Cannes e Pesaro, dove ha vinto rispettivamente la menzione Speciale della Giuria e il Premio Lino Micciché come Miglior Film uscirà sul grande schermo in dieci copie. “L’intenzione è quella di aumentare strada facendo – spiega la Piovano – e di rendere il film fruibile anche attraverso internet, dove sarà possibile scaricarlo a pagamento attraverso il nostro sito”.
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