Montaggio e testi: Davide Ferrario
Riprese: Andrea Pierpaoli (Betacam), Franca Bertagnolli (DV)
e Davide Ferrario (DV)
Suono: Claudio Morra
Musica: C.S.I.
Durata: 60′
Prodotto da Franca Bertagnolli e Davide Ferrario
“Si va perché è giusto, i grandi discorsi vengono dopo. Forse.”
Nel giugno del 1998 i C.S.I. hanno tenuto due concerti a Mostar, ed hanno invitato il loro amico Davide Ferrario a riprendere il viaggio. Organizzati in due giorni con una mini-troupe (una Betacam, una DV e un fonico), sono partiti senza sapere bene cosa e perché andare a documentare di quell’esperienza: il primo concerto di musica moderna dopo tre anni di guerra in una città fantasma, divisa in tre. Perché da una parte, quella ovest, ci sono i croati; e dall’altra, a est, ci sono i musulmani; ma in mezzo corre una striscia di terra di nessuno, nella quale anche i caschi blu non sanno come comportarsi. E attraversando la città non ci sono checkpoints o linee di confine fisiche: il confine non si vede, non si tocca. Ma si sente benissimo.
I concerti in programma sono due, uno per parte, perché sarebbe inaccettabile l’ipocrisia di farne uno solo, di finta riconciliazione, una specie di “We are the world” di Mostar, come proposto dalle autorità occidentali. Così il primo è previsto nello stadio della parte est, che durante la guerra era stato centro di smistamento per i campi di concentramento. Un luogo simbolico nel quale tornare a portare un po’ di musica diventa una necessità. Il giorno programmato, però, piove. Naturalmente a quel punto è impossibile annullare uno solo dei concerti, per non dare ad una delle due parti un’impressione di ingiustizia. Si rinviano entrambi. Intanto Ferrario riprende in tempo reale il percorso in auto tra il luogo del primo e quello del secondo concerto: una delle sequenze più belle del filmato, che tenta di “misurare l’odio” e riesce a trasmettere la fantasmaticità non solo esteriore di questa città. La domenica la pioggia è scongiurata, forse anche grazie a due criniere di cavallo mongole esposte sul da Ferretti: il concerto si tiene, davanti a pochissime persone. Diversamente, a ovest, dove la gente veste come quella dell’altra parte ma è più ricca, e si vede, è più occidentale. Dove si parla più inglese e si conta in marchi. Lì il concerto dei CSI è preceduto dalle performance di gruppi locali. Uno di essi suona la musica di “Pulp Fiction”, e Ferrario si domanda cosa significhi per loro che hanno conosciuto la violenza vera e non quella iperbolicamente finta del cinema.
Già: il cinema, che qui si fa testimone oculare di quello che resta di qualcosa che non si può, per pudore e rispetto, cercare di spiegare. Si pone, invece, e ci pone indirettamente, molte domande, Davide Ferrario, che accompagna le proiezioni di questo filmato di persona, leggendo un commento che rimane fuori dal campo dell’inquadratura, ma al di qua della linea di confine fisico tra sala e schermo, e ancora più dentro, nel campo dei dubbi e dei pensieri. Davide legge, anche l’altra sera al festival Arcipelago, segue le immagini dal sotto insù, dondolandosi sulla sedia al suono della canzoni dei CSI. E ammette di non poter concludere questo strano documentario, se non con un uomo, ripreso il giorno della partenza, che si allena correndo nello stadio di Mostar, forse simbolo di qualcosa del futuro di questa città. Forse.
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