VENEZIA – Per il secondo anno la Preapertura della Mostra è affidata allo sguardo di Andrea Segre. Dopo Molecole, diario della pandemia e di una riscoperta del legame con il padre e con la città, ecco La Biennale di Venezia: il cinema al tempo del Covid, prodotto dalla Biennale con Rai Cinema e Luce Cinecittà.
Un ‘dietro le quinte’ dell’edizione 2020 del festival, con I rigidi protocolli di sicurezza e le tante limitazioni, ma anche la gioia di vedere i film al cinema. Le immagini del presente e quelle del passato, affidate ai materiali dell’Archivio storico delle Arti Contemporanee – ASAC della Biennale di Venezia, e dall’Archivio storico Luce, a testimonianza di una ritualità immutata e (presunta) immutabile, interrotta dall’irruzione del Covid nella nostra vita quotidiana. “L’anno scorso – spiega Segre – la Biennale mi ha chiesto di documentare un’edizione forse unica, forse storica (ancora la domanda è aperta) della Mostra del Cinema, quella organizzata nel cuore di una pandemia globale. Ero impegnato in un altro lavoro e avevo pochi giorni a disposizione, ma la sfida era bella e l’ho accettata. Ne è nato un piccolo diario filmato, non posso chiamarlo film, sono appunti in presa diretta di un pezzo inatteso della storia della Mostra e del cinema, sono semplicemente uomini e donne incontrate nel cuore del festival, che riflettono su quanto stanno e stiamo vivendo”.
Ma Segre è a Venezia 78 anche con Welcome Venice, che lo riporta a dieci anni esatti da Io sono Li alle Giornate degli Autori. “Un progetto immerso nelle calli e nelle acque di una Venezia che si sente scomparire, che non sa dove andare, ma trova ancora la forza di esistere e di parlare, a sé e al mondo. Una Venezia che rischia di essere consumata dalla sua stessa bellezza e fama, una città simbolo di urgenze e cambiamenti globali che coinvolgono tutti noi”.
Il film, con Paolo Pierobon, Andrea Pennacchi, Ottavia Piccolo, Roberto Citran, aprirà le Notti Veneziane e dal 9 settembre sarà distribuito da Lucky Red in sala. È quasi un thriller familiare, costruito attorno alla contrapposizione, fortemente simbolica, tra due fratelli: Dopo la morte improvvisa del terzo di loro, Pietro e Alvise sono i due eredi di una famiglia di pescatori della Giudecca. Mentre Pietro, un solitario con un passato difficile, vorrebbe continuare a pescare moeche, i granchi lagunari, Alvise è determinato a salire sul treno della globalizzazione. Ristrutturare la casa della Giudecca per farne una meta per turisti esistenziali, alla ricerca di emozioni inedite e di ‘radici’. Ma Pietro sembra l’unico davvero disposto a rinunciare a qualcosa per conservare le radici vere, che cerca di trasmettere al nipotino, insegnandogli a pescare e a distinguere le moeche buone da quelle non commestibili. Il film attinge alla bellezza unica dei luoghi e all’unicità del rapporto tra il contesto urbano e gli spazi naturali, l’acqua e il cielo, con i suoi temporali violentissimi e i pericoli della laguna.
Segre, come nasce questo progetto che approfondisce ulteriormente il discorso sulla città lagunare?
Da tre anni sto lavorando a raccontare Venezia dal di dentro. L’ho fatto con Pianeta in mare che parla di Marghera e del Petrolchimico, un modo per affrontare il tema, che mi sta a cuore, del rapporto tra la città e le tensioni globali. Stavo lavorando a uno spettacolo per lo Stabile del Veneto, che è stato fermato dal Covid, sul rapporto con le acque, e sulla fragilità e bellezza di Venezia, e così, durante lo stop obbligato della pandemia, è nato Molecole.
Welcome Venice prosegue quel discorso con gli strumenti della narrazione e della fiction.
Welcome Venice ci porta dentro un quartiere popolare come la Giudecca per raccontare l’impatto sulla vita dei veneziani del turismo di massa. Come in Molecole si parla della opposizione tra consumare la città e viverla. Venezia è talmente potente che è inevitabile che venga messa al servizio dei consumatori, ma questo non può portare a mancare di rispetto alla città.
Ha voluto creare una tensione narrativa, con la minaccia di qualcosa di irreparabile che possa sorgere tra i due fratelli nella loro radicale e insanabile contrapposizione.
Volevo creare la sensazione di un climax che porta verso la tragedia. L’irreparabile, come lei dice, è qualcosa che deve interrogarci. Cosa sta producendo di irreparabile tutto quello che stiamo vivendo. I due fratelli hanno entrambi ragione ed entrambi torto. Alvise non è uno schifoso speculatore e Pietro non è un ottuso conservatore. Mi auguro che il film ci porti a non saper bene da che parte stare tra loro due.
Forse dovremmo stare dalla parte della natura, che abbiamo violentato, e che in Venezia riesce comunque a riprendere il sopravvento, nel bene e nel male.
Venezia è l’unica grande città al mondo che non può prescindente dal rapporto con la natura. Ciclicamente qualche instabilità ce lo ricorda. C’è un rapporto di fascinazione e inquietudine rispetto a questo. L’acqua alta ne è un esempio. L’acqua è un elemento magnificamente presente. Questo è il grande insegnamento che Venezia ci può dare – e che anche la Mostra ha provato a dare l’anno scorso: di fronte a quello che la natura ci sta dicendo con la pandemia: decidiamo cosa salvare. Nel caso del festival, l’unica cosa che possiamo salvare è la proiezione nella sala. Garantire all’arte di avere il suo spazio naturale e il suo rapporto con lo spettatore. Se ci accorgiamo della minaccia dell’irreparabile, possiamo cercare delle risposte.
A proposito di questo, come ha lavorato al film sulla Mostra del 2020?
La Biennale mi ha chiesto di raccontare cosa stava accadendo. Non avevo molto tempo, ma sono stato tre giorni dentro la Mostra e ho cercato di prendere appunti. Mi sono concentrato sulle persone non famose, gli spettatori, i giornalisti, i fotografi, gli addetti alle pulizie… Così come provo a stare con i veneziani e i pescatori, ho attinto alle esperienze delle persone che frequentano il festival o ci lavorano. Poi ho fatto dialogare questo momento con la storia della Biennale, attraverso i materiali, per segnare il rapporto con una memoria consolidata nell’opinione pubblica. Negli archivi troviamo le abitudini immutabili, i rituali, che per una volta sono stati rimessi in discussione dall’emergenza. Credo che questo possa riportarci all’essenza delle cose. A Venezia 2020 non potevamo abbracciarci, non potevamo stare ai margini del red carpet, ma i film si sono salvati.
Che riflessione ci lascia questa esperienza?
La domanda fondamentale riguarda la sala. Siamo di fronte a un cambiamento epocale, che non a caso ha a che fare con la pandemia. Abbiamo vissuto chiusi in casa per mesi perché potevamo lavorare a distanza grazie alla tecnologia telematica, che è la stessa che potenzia l’economia cinematografica, ma la interroga sulla sua identità. È inutile fare i luddisti contro il turismo e contro il web, ma è utile porsi delle domande.
Welcome Venice inaugurerà la Sala Laguna intitolata a Valentina Pedicini.
Ne sono molto contento. Mi piace tornare alle Giornate degli Autori, dove ho portato la mia opera prima Io sono Li. Mi piace farlo con un film sulla laguna. E mi piace inaugurare la sala dedicata a Valentina. Lei rappresenta molto per la nostra generazione di autori quarantenni, noi che lavoriamo sul confine tra realtà finzione a un cinema di contaminazioni e sperimentazione. E poi è una sala che rimarrà alla città anche dopo il festival e questo lo considero simbolico per il discorso che abbiamo appena fatto.
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