Amos Gitai: con l’uccisione di Rabin finì il processo di pace

Rabin, The Last Day (in Concorso) ricostruisce l'assassinio e il clima di violenza in cui maturò. "Aveva capito che Israele è anche la terra dei palestinesi e va trovata una convivenza tra i popoli"


VENEZIA. Prima di iniziare l’incontro con la stampa, Amos Gitai chiede a tutti i giornalisti di alzarsi e di rispettare un minuto di silenzio per l’ultima vittima e le tantissime altre del conflitto israelo-palestinese. Quella guerra che Yitzhak Rabin, il premier laburista, aveva caparbiamente provato a disinnescare, imboccando con gli Accordi Oslo la via della pace e della convivenza tra due popoli, dando vita sia all’Autorità Nazionale Palestinese e al suo controllo su parti della Striscia di Gaza e in Cisgiordania, sia alla rinuncia della violenza e al riconoscimento ufficiale di Israele da parte di Yasser Arafat.
A 20 anni dall’uccisione del Premio Nobel per la pace, il 4 novembre 1995, Gitai con Rabin, The Last Day (in Concorso), film politico essenziale, senza sbavature e potente, ci dà un’interpretazione documentata di quel tragico evento, a partire dai documenti originali della Commissione d’inchiesta. Ci aiuta anche a comprendere i rischi che corre la società laica israeliana con il diffondersi di violenti movimenti religiosi ortodossi, e quale sia l’unica pace possibile.

Un’inchiesta approfondita, lunga due ore mezza, sull’assassinio di Rabin, che si compone di materiali di repertorio (l’ultimo  comizio di Rabin e l’attentato, le interviste a Simon Peres e alla vedova Rabin, le contestazioni alla Knesset, gli incidenti con i coloni, le manifestazioni contro gli accordi di Oslo) e parti di finzione (il lavoro della Commissione d’inchiesta, la riunione del gruppo religioso estremista, l’interrogatorio dell’assassino, il 25enne Yigal Amir).
Un atto d’accusa a quella parte del Paese che si nutre delle teorie dei gruppi religiosi oltranzisti e dei leader politici di destra. Soprattutto l’affondo è nei confronti dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, esponente del partito conservatore Likud e principale rappresentante dell’ala nazionalista, che ha ricoperto una prima volta l’incarico di primo ministro 8 mesi dopo l’uccisione di Rabin ed è tuttora alla guida di Israele, con l’appoggio decisivo delle formazioni ultraortodosse, dopo le elezioni del maggio 2015 e con l’impegno che “uno Stato palestinese non nascerà mai”.

Lei Gitai ha conosciuto Rabin?
L’ho intervistato  e conosciuto a Gerusalemme, un uomo sincero anche duro, che parlava in modo diretto. Ai suoi funerali i confini si sono fusi, tutti i leader medio-orientali sono venuti a Gerusalemme, non a Tel Aviv. Rabin aveva capito che Israele è anche la terra dei palestinesi e che va trovato un modus vivendi, una convivenza tra i due popoli. Certo non tutte le persone in Medio Oriente hanno buone intenzioni, ma Rabin era sincero. 10 anni prima che Sharon si ritirasse dalla Striscia di Gaza, Rabin affermava, nell’intervista ripresa dal film, che non si può fare la pace in modo unilaterale, ma di considerare gli altri, i palestinesi, con i loro problemi.

Il finale del suo film ci dice che l’uccisione di Rabin è stato lo spartiacque per la storia del suo paese.
Le ultime battute recitate dal giudice sono la parte conclusiva della relazione della Commissione d’inchiesta Shamgar che aveva comunque un mandato limitato: quello di verificare i fallimenti operativi e organizzativi nei sistemi di sicurezza che vigilavano sulla persona di Rabin. Tuttavia in una mezza pagina si fa riferimento al fatto che quelle pallottole hanno cambiato il destino di Israele. Non è un caso che oggi stiamo toccando il fondo.

Perché non ha funzionato il sistema di sicurezza a protezione della persona di Rabin?
Non saprei. Oliver Stone nel suo film sull’uccisione del presidente Kennedy avanza l’idea del complotto. Non credo che questo valga per la morte di Rabin, non parlerei di cospirazione. Piuttosto del proposito di destabilizzare un leader eletto democraticamente, una persona integra, con una campagna d’aggressione nei suoi confronti.

Il film non ci dice che fine ha fatto l’assassino di Rabin, come mai?
Non ho messo al centro Yigal Amir, per non farne un mito, è stato solo uno strumento di quella campagna messa in piedi contro Rabin da altri. Lo stato israeliano è stata pietoso con lui, lo ha trattato con tenerezza, ha avuto un figlio e tra 5 anni verrà rilasciato.

Come è riuscito a conciliare il materiale d’archivio con quello di finzione?
Non è stata una sfida facile, la difficoltà era proprio come trattare questo materiale esistente. Rabin aveva una sorta di aura, di carisma. Abitava in un appartamento modesto, di 90 metri quadrati, era una persona correlata alla sua dimensione di primo ministro di un paese fragile. E’ al tempo stesso il centro e il buco nero della mia pellicola.

Il film si conclude in modo emblematico al presente, con i manifesti di Netanyahu alle ultime elezioni del marzo 2015, da lui vinte.
Il film oscilla tra il passato e l’oggi, c’è una connessione tra queste due fasi storiche, ed è stata una sfida complessa. Prima ci siamo concentrati sui documenti esistenti e poi sulla parte di finzione.

Fa un certo effetto vedere sui tavoli le armi accanto ai testi sacri religiosi sui tavoli degli insediamenti dei coloni israeliani.
Eppure Israele è il risultato di un progetto politico, non certo religioso. E’ la conclusione di un lunga vicenda storica che, dopo secoli di sofferenza per gli ebrei, ha portato alla nascita di un piccolo stato. Un progetto che deve accomodare la realtà e i politici a questo si devono attenere, rendendo stabile la presenza di Israele, riconoscendo gli altri, non ignorandoli. A differenza del progetto religioso che scivola nel delirio e nel fanatismo.

Anche questa volta, come nei suoi precedenti film, ha coinvolto gli interpreti nella fase di sceneggiatura?
Si tratta di un’opera più ristretta, nella quale volevo attenermi ai fatti. Non ho concesso ai miei fantastici attori quella libertà o possibilità di improvvisare. Certo li ho considerati persone che possono avere opinioni diverse dalla mia. Il cinema è come l’architettura non si può fare da soli, è il risultato di un lavoro collettivo.

Dal film emerge l’immagine di una società israeliana divisa, quasi a rischio di guerra civile. Non c’è questo pericolo?Semmai l’aspetto più preoccupante è lo slittamento dei diritti civili, del rispetto delle donne. Israele rischia oggi di ghettizzarsi, di chiudersi al mondo e ci sono forze sociali e politiche che spingono in questa direzione.

Alla fine che paese è Israele?
Un paese schizofrenico come l’Italia. Voi vi siete liberati di un uomo politico kitsch e corrotto, ma vi sono anche italiani sofisticati e intelligenti. Così da noi troviamo israeliani brutali e volgari e persone di cultura e impegnate. Non dimentichiamoci che quel vostro ex presidente del Consiglio e l’attuale nostro erano amici.

Lei come vede il futuro del suo paese?
Non rivelo un mistero, dicendo che non viviamo un bel momento. La cultura, il cinema devono parlare a voce alta, certo non cambieremo la realtà come tragicamente una pistola è riuscita a fare. Ma questo è il compito di noi artisti.

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