Almodóvar: “Non ho riscritto Cocteau ma l’ho digerito e fatto mio”

Almodóvar: “Non ho riscritto Cocteau ma l'ho digerito e fatto mio”


VENEZIA – “Jean Cocteau m’ispirò già ne La legge del desiderio (1987) in una scena con Carmen Maura: poi l’idea è tornata in Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), si trattava di riprendere un po’ questi concetti. È l’attesa di una telefonata delirante, qualcosa di molto interessante: una donna sola, un cane abbandonato. L’abbandono mi è sempre interessato. Penso questa, con The human voice, sarà l’ultima volta con Cocteau”, dice Pedro Almodóvar presentando in anteprima Fuori Concorso il suo cortometraggio appena girato a Madrid, nel periodo immediatamente successivo il blocco sanitario, momento particolare a cui l’autore dedica una riflessione.

“Il lockdown ci ha costretti a casa, e diverse cose sono state dimostrate: ad esempio quanto la gente dipenda dalla fiction, e dalla cultura, quanto abbiano riempito dal nostro tempo; le piattaforme hanno svolto un ruolo fondamentale ma avverto un altro risultato, in negativo, cioè abbiamo percepito la casa come reclusione, seppur in modo sedentario si possa far tutto. Non mi piace che la reclusione continui nel tempo e il cinema è l’opposto: andare al cinema è un’avventura che comincia dal vestirsi, poi uscire, essere in strada e condividere infine un luogo con degli sconosciuti, un’esperienza catartica umana fondamentale. Da regista e spettatore, la sala, con il respiro della gente, mi dà delle sensazioni. Subito dopo il lockdown ho fatto questo film e il mese prossimo ne comincio un altro: bisogna fare cinema per far andare al cinema”. 

Almodóvar da quasi trent’anni maneggia Cocteau, ma con The human voice s’è misurato con due prime volte: la prima, la direzione in lingua inglese, la seconda, la direzione di Tilda Swinton, non (ancora) una delle sue interpreti feticcio: “Per girare il film è stato inevitabile appropriarsi del testo. Ero cosciente lo avesse fatto Rossellini con Magnani, anche Ingrid Bergman. Io volevo fare qualcosa di quasi opposto, altrimenti non riconoscevo come contemporanea la donna che attende di parlare con il proprio amante. È stata una libertà questo film: volevamo essere teatrali ma anche cinematografici, partendo dal punto naturalista fino ad un ambiente fittizio. Si trattava di un esperimento che volevo fare, e ho fatto scomparire la maggior parte di Cocteau. Non ho riscritto un classico ma l’ho digerito e fatto mio. Mi piacerebbe che questo idillio con Tilda andasse avanti, ci lavorerò su: quando scopri la chimica con un attore è unica, perché ti dà la capacità di andare lontano e moltiplicare il tuo talento”. 

L’attrice protagonista – confessa – s’era raccomandata “molto in alto” per lavorare con il regista spagnolo: “Il mio rapporto con il cinema di Almodóvar è iniziato con Donne sull’orlo di una crisi di nervi. È stato il momento in cui mi sono innamorata del suo cinema. Ho un amico, in Scozia, monaco benedettino: 12 anni fa gli chiesi di pregare per me perché potessi lavorare con Pedro. Non parlo spagnolo ma il cinema crea complicità e questo è un sogno che si realizza. Una delle illusioni con cui mi confronto di più è la capacità di comunicare, che mi rende devota all’arte e alla vita”. 

Un piacere collettivo questa produzione, che emerge anche dalle parole di Agustín Almodóvar, storico produttore del fratello, e qui anche attore: “È stata una prima esperienza di Pedro con l’inglese, molto interessante, e Tilda ha reso tutte le cose molto semplici. Dopo i primi giorni avevamo l’impressione di una complicità tra artisti che lavorano insieme da tempo: lo staff era spagnolo ma alla fin fine scoppiava spesso l’applauso. Un rischio, con il piacere di conoscere e lavorare con Tilda”, che recita il suo monologo in un appartamento, che scopriamo essere un set cinematografico, eppure non la scena di un film, metafora e distorsione sull’equilibrio di realtà e non-realtà. Un luogo maniacalmente arredato, colorato e reso vivo da una scenografia nel nome del design, pezzi riconoscibili e peculiari arredano tutta la scena, con colori accesi e vitali, non senza citare il cinema, infatti compaiono alcuni DVD nella mani della Swinton, tra cui Kill Bill, riconoscibilissima l’iconica tutina gialla della protagonista, un costume in qualche modo metaforico e d’ispirazione, poiché anche il personaggio femminile di The human voice indossa sempre completi interi monocolore, quasi una “maschera” super eroica, per questa donna che quando riesce finalmente a parlare al telefono con il proprio amante sull’orlo dell’abbandono dice: “ti ho amato così tanto che avevo paura di farti del male”, frase parte di un più articolato e complesso monologo telefonico che sta in bilico tra passione, confessione e autoanalisi. 

“Si tratta di un monologo in cui la parola è tutto: l’ho scritto in spagnolo, ed è stato tradotto. Le ho detto di essere libera di cambiare espressioni se più adeguate: all’inizio è stato un po’ difficile lavorare in un’altra lingua, ma sentirla parlare nella sua lingua era fantastico, per i toni e la musicalità. Non avevo mai pensato a me riflesso in quella donna, ma anche io personalmente ho atteso invano… Pensando alla mia donna in scena, penso nel classico fosse troppo sottomessa, mentre io volevo vendetta, il che dimostra che il testo è vivo e si trasforma. Da Julieta (2016) mi sto proiettando in una narrazione più contenuta, con meno elementi ma analizzati in modo più profondo: voglio investigare. Il corto è molto barocco, contiene tutti i colori che a me piacciono, come baracco è il monologo”, ha spiegato ancora Pedro Almodóvar, che in ottobre comincia la pre-produzione del prossimo film e “nel frattempo ho scritto due sceneggiature che mi piacerebbe fare con lo stesso senso di libertà. Hanno un’aria teatrale, uno è un western particolare, Strana forma di vita s’intitola, ed è come un fado, una sorta di distopia”.  

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