“La figura della Escort non è certo una novità. Prima c’erano le ‘call girl’, è semplicemente un modello di lavoro sessuale fino all’altro ieri rispettabilissimo, ora degradata da comportamenti relativi non alla professionista ma a chi la utilizza, che avrebbe responsabilità ben più grandi”. La dichiarazione è di Pia Covre, portavoce per il Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute venuta ad animare il dibattito attorno al documentario Case Chiuse di Filippo Soldi, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione L’Altro Cinema/Extra. Inevitabile il riferimento all’attualità, ma il film, prodotto da Flavia Parnasi per Combo Produzioni e Rai Cinema, ha piuttosto il carattere dell’inchiesta: “Non sono io a dover dare la soluzione – dice la produttrice – ma vorrei che almeno si parlasse del problema”.
Soldi lo fa con stile niente affatto compiaciuto e il gusto della narrazione, raccogliendo contributi dal mondo del cinema (intervengono ad esempio Tinto Brass, Lina Wertmuller, Lando Buzzanca) ma anche risalendo all’origine di quello che è ‘il mestiere più antico del mondo’, collezionando tutto ciò che può servire alla ricostruzione, da riflessioni antropologiche a immagini delle terme pompeiane. Fino ad arrivare a oggi, intrufolandosi in un celebre locale, l’Artemis di Berlino, che offre, tra i molti servizi, esattamente come un un normalissimo centro benessere, anche le prestazioni sessuali di libere professioniste, intervistate per l’occasione. Ma lì, sebbene per ragioni burocratiche i gestori preferiscano evitare l’assunzione a tempo indeterminato delle signorine, è tutto legale. Di grande valore documentario anche le lettere che molte mestieranti scrissero alla senatrice Merlin, responsabile dell’apertura delle ‘case’, lette nel film da Piera Degli Esposti e Mariangela D’Abbraccio.
“Qui le cose stanno diversamente – aggiunge Covre – le ragazze sono criminalizzate e marginalizzate. Perfino le italiane, con tutti i documenti in regola, vengono portate in commissariato, schedate come criminali, magari minacciate dalla polizia. E’ un abuso. Ma la storia del mestiere è complessa. Col comitato ci impegniamo, ma non abbiamo certo conquistato tutti i diritti che chiedevamo. Il primo cambio radicale va fatto ovviamente risalire alla legge Merlin del ’58, che impedisce esplicitamente di esercitare in ambiente chiuso e organizzato. Chiaro, una donna teoricamente può sempre disporre del proprio corpo e la libertà può passare anche da questo tipo di scelta ma, come in tutte le cose, vedi ad esempio le droghe leggere, si tratta di creare delle condizioni legali e di controllo che impediscano che il mestiere diventi viatico per lo sfruttamento e il commercio di esseri umani. L’aspetto che coinvolge il lavoro sessuale è solo la punta dell’iceberg: pensate alla raccolta di pomodori. E’ questo che va abolito, non il lavoro sessuale in sé. Ma l’immaginario comune è portato a pensare che, eliminata la prostituzione, si elimini il traffico di schiavi. Non è così. Laddove si legalizza, le cose funzionano. Immaginiamo una situazione in cui si possa fare un buon contratto con l’utilizzatore, come in qualsiasi altro lavoro, con tutti i diritti necessari. Ci si trova invece a fare i conti con cattivi clienti e sfruttatori”.
“Per quanto riguarda l’aspetto artistico – dice il regista – sono affascinato dal bordello come lo sono dal patibolo. Nasciamo, mangiamo, facciamo l’amore e moriamo. Ho approcciato alla materia come se stessi realizzando un road movie, costruito però fermandosi solo in quei determinati posti. L’Artemis è rappresentativo proprio perché non rimanda a un’immagine stereotipata di bordello. Ci sono servizi, pasti, piscina, è una SpA. Girando per il mondo ho visto le situazioni più disparate. Alcune erano aberranti. In altri casi era diverso: magari si trovano escamotage, per cui le ragazze sono di fatto clienti che affittano camere, in altri casi hanno addirittura diritto alle ferie e alla maternità. Volevo esplorare un mondo, non limitarmi magari allo squallore di una singola situazione”.
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