“Per il tempo che le parole sono in bocca, sei il loro Signore. Una volta pronunciate sei il loro schiavo”: questa frase dal Talmud Babilonese sintetizza il valore del dialogo, fondamentale strumento di Aspettando Re Lear per restituire la contemporaneità di Shakespeare. Alessandro, perché aprendo il documentario ha scelto proprio questa… frase e perché il dialogo è portatore di attualità rispetto a un autore universale e alla sua tragedia sempre eterna?
Il mio background è quello della Letteratura, scoperta in età adulta: non posso dire di aver letto nello stesso modo prima della pandemia. La parola è diventata come una legge, perché attraverso la parola miglioriamo, deludiamo, creiamo un punto di partenza. E questa frase, all’inizio, vuole significare proprio questo: essere padroni della parola vuol dire essere coscienti di quali si possano utilizzare per poter interagire con la carne della tua carne, con il sangue del tuo sangue; a seconda di come la parola sia espressa se ne diventa schiavi o semplicemente ancora controllori, quindi quale occasione migliore di combinare questo antico proverbio babilonese con la grande forza di chi eredita, come Shakespeare, una tradizione legata alle grandi credenze, tradizioni, anche al Vecchio e al Nuovo Testamento, alla Bibbia? Succede che prendiamo Shakespeare e pensiamo che la parola scritta, recitata, ricordata incominci con lui, e invece no, c’è qualcosa che lo precede e in cui c’entra il rapporto padre-figlia/o, come quello tra Maria e Gesù, tra Dio e Gesù, senza dimenticare che il contesto del Re Lear sia medievale, in cui tutto cambia grazie a questo resoconto che Shakespeare fa.
Con questo documentario sceglie, appunto, di affrontare il tema ciclico e perenne della relazione padre-figlia/o: qual è stata la sua urgenza, quella più personale…, di portare a galla e affrontare proprio… questo rapporto? E quanto c’entra il suo essere figlio e il suo essere padre?
C’entra molto il mio essere padre non risolto, essendo diventato padre molto giovane: ho bruciato un po’ la linearità, le contraddizioni dell’educazione che ho ricevuto, per poi improvvisamente trovarmi a doverle riversare impastate con altre cose, come la carriera, gli impulsi fisici, la difficoltà di includere; insomma, non ero ancora figlio che sono diventato padre e da lì è stato abbastanza automatico pensare a Re Lear non tanto come l’opera che conosciamo, ma proprio aspettare che questo Lear, prima di diventare re, diventi uomo e quindi padre; è la consapevolezza dell’essere uomini, la saggezza della maturità, che ti permette di essere padre.
Lei torna alla regia dopo La legge del Terremoto, dove già incontrava l’arte, un’opera per tutte il Cretto di Burri: qui usa l’arte contemporanea di Michelangelo Pistoletto. Due domande: cosa dell’arte contemporanea permette di far esplodere l’eternità del rapporto che va indagando? E poi, perché Pistoletto? Perché proprio la sua arte è congeniale a questo progetto?
L’arte di Pistoletto è stata casualmente congeniata in maniera perfetta rispetto a quelle che erano le esigenze di racconto dell’adattamento teatrale, cioè opere molto asettiche e semplici che, una volta visitate dagli attori, scenicamente si trasformano. Qual è la sfida più grande per un regista? Ricordo sempre Il flauto magico di Peter Brook all’Argentina, dove c’erano dei blocchi movibili, che sono quelli in cui si mettono i materiali elettrici, ricoperti da un pareo, o una cannuccia che doveva essere un flauto, e tutto con una semplicità unica, per cui la mia sfida è stata trasformare queste opere, definite Arte Povera, e farle diventare di volta in volta una cornice, una struttura dove ambientare il processo, un tavolo con un segno porta, un letto: se ci penso, tutte le cinque/sei opere che hanno segnato il racconto sono una grandissima e fortunatissima coincidenza.
Infatti, in tutto questo s’introduce lo specchio, elemento imprescindibile dell’arte di Pistoletto ma anche simbolo: qui è interlocutore e riflesso. ‘Nello specchio non c’è per me niente, c’è soltanto la possibilità di rispecchiare… tutte le immagini che esistono… attraverso il riflesso materico permette che il nulla e il tutto siano presenti’, dice lui.
È bellissimo e risponde anche al ‘perché Pistoletto?’, perché ero in attesa di queste risposte, perché dentro la sua modalità di analisi e esperienza, quando abbiamo parlato del Re Lear, la sua considerazione, attraverso il concetto del ‘niente’ – che è il principio che muove tutta la storia, cioè la morte del linguaggio e dell’intenzione – è che lo specchio, finché non riflette la persona non riflette nulla, ma riflette tutto quello che c’è dietro il soggetto; la cosa cambia quando l’uomo si specchia, e lì Lear vede tutto intorno a lui, con sé incluso, ecco perché credo che la scelta delle sue opere sia stata graduale, anche perché il doc racconta come Pistoletto sia arrivato a mettere un’immagine viva dello spettatore dentro lo specchio. Il teatro è lo specchio delle cose: insomma, dalle cose più comuni e diffuse, lo specchio diventa anche qualcosa di più complicato, come guardare il nostro passato, un modo per proiettarci verso il futuro che ancora non è, qualcosa che nello spettacolo, e nel documentario, lavora molto.
Con lo specchio, s’accompagna la soggettiva cinematografica, che offre allo spettatore di guardare ‘in prima persona’: che bisogno sentimentale c’è dietro a questa scelta, solo apparentemente tecnica?
Per accarezzare dolcemente la solitudine dell’attore, dell’artista; non volevo lasciare l’artista da solo, volevo che qualunque cosa fosse detta o recitata, che la macchina da presa fosse sempre qualcosa che facesse sentire la persona o l’oggetto visti da qualcun altro, ecco perché la scelta di raccontare sempre dalle quinte, o andando dentro, perché lo spettatore potesse sentirsi parte del percorso dell’attore, ecco perché raccontarlo in mezzo alla strada o alla Fondazione Cini: cioè, ogni occasione è un’occasione perché l’attore si rivolga allo spettatore dicendo ‘io questo penso’; ho aggirato un po’ la magia del cinema, ovvero la distanza, il respiro largo, per poter non lasciare mai solo né lo spettatore, né l’interprete.
È una sua esigenza personale sentirsi meno solo?
Sì… lei m’ha teso una piccola trappola emotiva.
Tornando all’arte, non c’è solo quella di Pistoletto, ma anche quella dell’Architettura, dei luoghi, dal Chiostro del Bramante a Roma al Teatro Goldoni di Venezia, con l’Arsenale e il Labirinto di Borges, e gli interpreti – oltre a lei, Nando Paone, Roberto Manzi, Federica Fresco e Valerio Ameli – che si fanno portatori e specchi di stati d’animo, per un dialogo tra i luoghi d’arte e gli attori.
Era un gioco, per riportare alcune scene precise che non fossero la linea orizzontale dello spettacolo e nella rappresentazione teatrale abbiamo Edgar che si confronta con Gloucester interpretando e citando il fratello, e allora il fratello l’abbiamo ambientato all’Arsenale; lo stesso vale per Cordelia, che si confronta col padre in prigione, ed è una cosa che non vediamo, pur sapendo che lei interpreti anche Il matto e, per il resto, il tentativo era di far vedere come certe tematiche restino nella testa di chi interpreta, anche se sta facendo tutt’altro; è stato più un esercizio di stile che una reale necessità, se non quella di portare il teatro fuori dalla sua scatola nera.
Però, è anche una resa creativa, di scatole che comunicano.
Sì, perché la vita, l’arte, il teatro sono cose che fanno parte della libertà del pensiero, invece noi vogliamo mettere tutto in fila: è qualcosa di molto personale, infatti, quando preparo qualcosa, il luogo migliore in cui certifico è all’aperto, come nel tratto dall’albergo al teatro.
I luoghi di transizione, quindi.
Sì, i luoghi di transizione, perché da quando ho cominciato ho sempre utilizzato la memoria delle persone, del cielo, di tutto, e avendo cominciato con Shakespeare non è così difficile: se te lo porti dietro a memoria basta guardarsi intorno… perché lui stesso offre scenari.
Aspettando Re Lear, co-prodotto da Luce Cinecittà, vanta la partecipazione di Michelangelo Pistoletto, strumento umano e d’arte per dialogare con la tragedia shakesperiana e l’eternità dei suoi contenuti, come la relazione padre-figlia/o: il documentario è di e con Alessandro Preziosi, ideato da Massimo Mattei, realizzato con il sostegno della DG Cinema e Audiovisivo e la collaborazione del Teatro Stabile del Veneto.
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