Alejandro Jodorowsky, regista di culto con pochissimi film al suo attivo (mitici, per un paio di generazioni all’incrocio con la cultura beatnik, El Topo e La montagna sacra), è tornato al cinema, a ventidue anni di distanza, con la sua autobiografia, La danza della realtà. Un film in qualche modo terapeutico, come ci spiega in questa intervista, in cui tra l’altro recitano tre suoi figli. Siamo nella cittadina mineraria di Tocopilla nel 1929, l’anno della grande crisi, in una famiglia di ebrei emigrati dalla Russia. Il piccolo Alejandro cresce con la madre, giunonica e affettuosa (che si esprime solo cantando) e il padre, commerciante stalinista, che lo educa con una durezza estrema alla virilità, forse temendo che con la sua natura sensibile possa diventare omosessuale. Questi personaggi, reali ma reinventati dalla lussureggiante fantasia del regista cileno naturalizzato francese, compongono il quadro surreale del film che, dopo aver debuttato alla Quinzaine nel 2013, arriva finalmente nelle sale italiane grazie all’impegno di Salvatore Pecoraro e Antonio Bertoli con Garabombo. Sarà in tour in numerose città insieme all’istrionico regista, che è anche fumettista, scrittore, poeta e profondo conoscitore della divinazione con i tarocchi.
Jodorowsky, da quando sta meditando un film autobiografico?
Da 85 anni, cioè da quando sono nato, avevo questi personaggi nella mente. Ho attinto ai miei due libri La danza della realtà e Il figlio del giovedì nero.
Lei ha un legame particolarmente forte con l’Italia e con Fellini.
Quando sono arrivato alla Casa del cinema e ho visto la gigantografia di Marcello Mastroianni qui fuori, mi è tornato in mente il mio incontro con Fellini: abbiamo avuto un breve dialogo che non ho mai dimenticato. Io, all’epoca, nel 1990, ero a Roma per Santa Sangre e qualcuno mi chiese chi fosse il regista che mi aveva influenzato di più. Io ho risposto Fellini. Credo che lui l’abbia letto e gli sia piaciuto e così mi ha invitato sul set de La voce della luna. Era su un campo di notte, c’erano molte nubi, lo vidi da lontano, era alto, più grande di me. Lui mi ha detto “Jodorowsky” e io gli ho detto “papà”, poi ha cominciato una pioggia terribile, siamo corsi via e non l’ho più rivisto. Ma credo che questo dialogo dica tutto.
Qualcuno considera La danza della realtà il suo Amarcord. Condivide?
Capisco che lo dicano perché anch’io, come lui, parlo della mia infanzia, ma Fellini mostra un grande amore per il passato, che per lui è quasi sacro e immutabile. Per me invece il passato è trasformabile. Lo rivedo con gli occhi del bambino, quindi con colori forti, senza ombre e con molte licenze. Per esempio, il personaggio di mia madre, che avrebbe sempre voluto essere una cantante lirica, diventa veramente tale. Mio padre, che era forte e inumano e non ha mai trovato l’essere umano dentro di sé, lo faccio arrivare alla spiritualità. Siccome diceva sempre di voler uccidere il dittatore del Cile, io lo mando veramente ad ucciderlo. Mia madre era una donna umiliata e la faccio diventare il maestro, alla fine li faccio abbracciare e così curo la mia anima.
Perché non ha fatto film per 22 anni?
Perché non avevo i soldi, ma non ho mai smesso di pensare al cinema. Ogni sera vedo uno o due film e provo sofferenza, rabbia e invidia. Ma l’industria non voleva produrmi. Allora ho cominciato a fare fumetti per vivere e ho messo da parte tanti soldi che poi ho speso tutti per La danza della realtà. Il cinema come intrattenimento lascia la gente idiota com’era prima del film. L’arte non è noia né intellettualismo, è mostrare quello che uno scopre di bello in se stesso. Il cinema è la più grande delle arti ed è la più prostituita.
Lei compone il cast in modo totalmente libero.
Nel film ci sono tre miei figli, c’è la figlia della nana del Topo nel ruolo di una nana. Il falegname santo è veramente un falegname religioso, lo conosco dal 1940. L’ho portato in Cile da Parigi, dov’era in esilio, per girare quelle scene. Presto farò il seguito de La danza della realtà in cui ho 17 anni e chi potrà essere me a 17 anni se non mio nipote Dante Jodorowsky? Le star vanno bene per il cinema industriale. Quando ho fatto Il ladro dell’arcobaleno, nel ’90, per vedere com’era il cinema industriale, mi hanno demolito. Il produttore mi disse: “Non ti scontrare con le star. Anche se hanno torto, dagli sempre ragione. Ricorda che se succede qualcosa, mando via te, perché loro mi portano i soldi. Sono stato al servizio di Peter O’Toole e Omar Sharif e devo dire che O’Toole lo odiavo a morte. I divi, anche quando vogliono fare qualcosa di artistico, sono un veleno. L’ho detto anche al mio amico Nicolas Winding Refn, quando è andato a Hollywood a fare Drive, gli avevo letto i tarocchi e gli ho dato questo consiglio. Quando i produttori ti chiederanno di fare mille cambiamenti, tu segnatelo su un post-it, poi fai come ti pare, tanto se ne dimenticheranno.
E’ così che si aggira l’industria?
Distribuire un film oggi è una guerra. Siamo colonizzati, le sale sono monopolizzate, e io mi sento come Davide contro un immenso Golia. Ma si può trovare un’alternativa. Ad esempio negli Usa ho fatto la prima di questo film al MoMA e c’era una coda enorme. Il film è stato presentato da Marina Abramovich. A Parigi è stato in sala per un anno, è coprodotto da Pathè, ma io ho dovuto fare tutta la pubblicità da solo basandomi sul passaparola.
Considera il film anche come una psicoterapia familiare?
Per me è come una bomba atomica mentale. La psicomagia, che ho inventato, consiste nel guarire con degli atti i problemi psicologici dell’infanzia legati alla famiglia. In questo senso il film è una forma di guarigione familiare perché tre dei miei figli ci recitano dentro. Torno alla sorgente della mia infanzia, il luogo dove sono cresciuto, per reinventarmi. Ho viaggiato per 2.000 km fin lì. Tocopilla non è cambiata in 100 anni, era così come la vedete nel film. Tranne il negozio dei miei genitori che è andato a fuoco pur essendo accanto alla sede dei pompieri. Ho restaurato il cinema che era stato demolito. Sono diventato una specie di salvatore della città, io che da piccolo ero stato escluso perché ero bianco, ebrei e circonciso, in mezzo a coetanei indios.
Per suo figlio Brontis è stato strano interpretare il ruolo del nonno?
Ha avuto uno shock psicologico tremendo. In certi momenti volevo picchiarlo, poi mi rendevo conto che non era mio padre ma mio figlio. Alla fine questa esperienza ci ha uniti.
La Tocopilla della sua infanzia è un luogo di grande povertà.
Nel ’29, l’anno della grande crisi, il 70% dei cileni erano in miseria. Per tre secoli laggiù non ha piovuto e quasi tutti lavoravano nelle miniere di rame. La dinamite provocava incidenti in cui perdevano braccia e gambe, quando erano mutilati li cacciavano come cani e finivano per ubriacarsi con l’alcol delle lampade. Erano infestati da pidocchi che trasmettevano il tifo esantematico.
Lei ha incontrato Carlos Castaneda. Che ricordo ne ha?
Aveva visto El topo e, mentre mi trovavo in Messico e stavo lavorando alla preparazione di Dune, mi cercò. Arrivò con cinque minuti di anticipo e aveva un aspetto incredibile, era butterato dal vaiolo e sembrava un cameriere, ma appena iniziò a parlare mi resi conto che aveva intelligenza chiarissima. Voleva fare un film su Don Juan con Anthony Quinn, ma io gli dissi che non era una buona idea.
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