ROMA. “La traiettoria del mio personaggio, un padre irresponsabile, è molto frequente in America Latina. Si tratta di uomini che non si fanno carico delle loro azioni, che non riescono a imporsi a figure femminili troppo protettive e castranti nei confronti dei figli, uomini eternamente adolescenti che s’arrangiano in qualche modo a vivere”.
E’ quasi un grido d’allarme quello lanciato dall’attore Moisés Arizmendi tra gli interpreti di Cuernavaca, opera prima del messicano Alejandro Andrade Pease presentato nella selezione ufficiale, con Carmen Maura, Emilio Puente, Mariana Gajá, Diego Álvarez García, Dulce Domínguez, Aranza Beltrán.
La storia prende avvio dalla perdita improvvisa e violenta della madre che cambia radicalmente la vita di Andy (Emilio Puente), un bambino solitario e timido, privo di amici coetanei, con un padre lontano e assente (Moisés Arizmendi). Andy si trova così catapultato nella sconosciuta Cuernavaca, nella villa della nonna paterna (Carmen Maura) una donna autoritaria e anaffettiva, cattolica osservante e con una figlia down.
La casa si rivela ben presto una sortadi prigione, con mura che la separano dal mondo circostante di chi tra miseria, sfruttamento e rapine s’arrangia a vivere. L’unico tramite con quell’esterno per Andy è un giovane giardiniere che lo mette in contatto con una vita per lui affascinante ma anche pericolosa. Ma l’arrivo del padre tanto atteso e cercato sembra finalmente aprirgli uno spiraglio possibile di libertà.
Alejandro Andrade Pease, la storia da lei narrata in Cuernavaca è autobiografica?
In parte, nasce dai ricordi d’infanzia. Avevo questa nonna che viveva a Cuernavaca e che ha parecchie cose in comune con il personaggio interpretato da Carmen Maura. All’epoca viveva in una casa a Madrid che ricordava molto la casa del film con l’odore della guaiava, le formiche. Tutto questo contesto mi è tornato alla memoria ed è diventato l’ambientazione del film.
La storia del bambino è allora frutto dell’immaginazione?
Totalmente inventata. Mi interessava mettere in scena un personaggio che compisse un tragitto completo: inizia timido, chiuso in se stesso e protetto dalla sua famiglia, ma alla fine del suo percorso diventa più adulto dei suoi adulti. Andy Andy dopo tutte le esperienze vissute alla fine ha maggiore capacità di proteggere gli altri di quanto non l’abbia suo padre che invece non si è ancora liberato dai suoi conflitti, dei problemi con la madre, rivelandosi un adolescente perpetuo.
Il bambino che è stato vittima della violenza si trasforma lui stesso in autore di violenza.
La tesi del film è che il dolore e la paura generano violenza, la quale a sua volta provoca ancora dolore e paura, creando una spirale infinita. Quando la violenza irrazionale irrompe nella vita del ragazzino, prima reagisce con paura, poi con rabbia. Un ciclo comune in Messico dove tutti viviamo con la paura e la rabbia, e dalla rabbia si passa alla violenza. E’ un ciclo che potrebbe non estinguersi mai, ma quando si può spezzare? Quando subentrano la tenerezza e la compassione.
Il bambino porta sempre con sé un mantello da supereroe.
Andy è sempre stato protetto, ha vissuto in una campana di vetro e quindi quel mantello per lui è il simbolo di una forza che gli viene dall’esterno, ma che invece dovrebbe ricercare dentro di sé.
Per la preparazione di questo film si è ispirato ad altri autori?
Ho seguito innanzitutto il suggerimento del regista cileno Raul Ruiz che nel momento in cui affronta un tema, vede tutti i film che l’hanno in precedenza trattato. Volevo fare un film sulla maturazione di un personaggio, sul coming of age, così ho visto i film migliori sul tema come I 400 colpi di Truffaut. E’ stata una visione ossessiva, più di 20 volte, perché era l’esordio di Truffaut e anch’io debuttante ho cercato di capire come è riuscito ad azzeccare questa sua prima volta. Quando esci da una scuola di cinema non sai esattamente come si realizza un film, l’unica strada percorribile è ispirarsi ai grandi cineasti. Altri riferimenti sono stati L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, in particolare i sogni, e Mouchette di Robert Bresson. Sono film tutti e tre degli anni Sessanta, opere come oggi non se ne fanno più in Messico e nel mondo, e dunque il mio film non è in linea con la produzione attuale. Ma non importa.
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