Arriva al cinema da stasera – con una première (già sold out) al Cinema Adriano di Roma – dopo la presentazione all’Heroes International Film Festival, l’opera prima di Aldo Iuliano Space Monkeys, dramma generazionale che ammicca alla fantascienza ma si radica nell’attualità. Dopo una quindicina di cortometraggi, tra cui il pluripremiato Penalty (disponibile su RaiPlay), il regista crotonese classe 1980 si è lanciato nella realizzazione di un racconto molto ambizioso che va al cuore della Generazione Z, quella dei nativi digitali che, immersi nel virtuale sin dal primo vagito, devono trovare la loro strada in una realtà sempre più confusa e inafferrabile. In scena ci sono cinque adolescenti: la francese Justine (Souad Arsane, protagonista di Sextape, visto al Certain Regard di Cannes), ragazza introversa presa continuamente di mira dagli altri, la bella influencer Marta (Amanda Campana, Summertime), il geniale, ricco e arrogante Ste (Haroun Fall), l’aspirante producer musicale Balo (Riccardo Mandolini) e Dani (Ambrosia Caldarelli), che ha il sogno di fare la cantante ma intanto si rifugia nella droga. Dalla spiaggia in cui stanno facendo un falò, i ragazzi vengono invitati da Ste nel villone ipertecnologico dei suoi, dove Able, intelligenza artificiale che lui stesso ha progettato, è pronto a farli divertire sfidandoli a dimostrare il proprio coraggio in modi sempre più estremi. Prodotto da Freak Factory con Rai Cinema e girato tra la spiaggia di Baia dei Greci (Crotone) e un castello a Caccuri, Space Monkeys ha come reference dichiarata Arancia meccanica e lavora in modo raffinato sulla luce, sui colori, sul design, astraendo lo spazio e il tempo in cui sono immersi i cinque protagonisti di questo gioco al massacro. Il racconto, che si fa via via più astratto e metaforico, gode dei contributi artistici di grandi nomi come Daniele Ciprì alla fotografia, Enrico Melozzi per le musiche, Marco Spoletini per il montaggio, Paki Meduri per la scenografia e Francesca Sartori e Mara Masiero per i costumi.
Iuliano, il film affronta di petto il fenomeno, molto attuale, delle challenge, perché questa scelta?
La diffusione delle challenge mi ha colpito molto, perché dice tanto del periodo storico che stiamo vivendo e della Generazione Z, che non conosce più confini tra reale e virtuale. Mi sono chiesto perché i ragazzi giocano con la morte per sentirsi vivi e allora ho fatto un’indagine, senza giudizi ma con l’intenzione di capire, facilitata dal fatto che insegno regia e ho spesso a che fare con gli adolescenti. Più cercavo di capire, più mi rendevo conto che il discorso è molto complesso, tant’è che nel film a un certo punto abbandono il plot per avventurarmi in un viaggio nei loro sentimenti. Non la ritengo una generazione perduta, ma caratterizzata da una profonda solitudine, diversa da quella della generazione precedente. Il titolo evoca contemporaneamente il futuro e i nostri antenati che scoprivano il fuoco, che cercavano di sperimentare una realtà che non conoscevano. Infatti, nella storia non c’è tempo.
Non si vedono adulti nel film, ma si sente – o meno – la loro presenza, e credo che questo sia decisivo rispetto alla solitudine dei ragazzi e alla loro capacità di restare ancorati alla realtà…
È vero, la presenza dei genitori di Ste si sente solo nell’agiatezza, e lui è il più solo di tutti. Degli altri genitori si sentono solo le voci: ho voluto mostrare diverse sfumature del rapporto con i genitori per far capire da dove arriva ognuno di questi ragazzi. Justine, proprio per i rapporti con i suoi, è quella che percepisce più di tutti il reale.
Space Monkeys è un film notturno illuminato quasi solo da luci al neon, salvo poi ritrovare, sul finale, una luce naturale…
Esatto, e quella luce rappresenta il ritorno all’essere umano per dei ragazzi che stanno vivendo un mondo nuovo. Ho potuto lavorare con un grandissimo professionista come Daniele Ciprì per la fotografia, ha fatto un lavoro incredibile.
Il cast tecnico è composto da grandissimi nomi, come li ha coinvolti?
Con Ciprì, Spoletini e Melozzi avevo già lavorato sul cortometraggio Penalty, mentre Paki Meduri è un nuovo acquisto, così come le costumiste Sartori e Masiero, che mi sono state consigliate addirittura da Milena Canonero, che non conosco di persona ma a cui avevo scritto, visto che il mio punto di riferimento per questo film è Arancia meccanica. Li ho coinvolti semplicemente raccontandogli la storia, loro hanno creduto nella mia idea e sono stati generosissimi nel salire a bordo di questo film low budget.
A proposito, che budget ha avuto e in quante settimane è stato girato?
Il budget non supera i 600mila euro, abbiamo girato per un mese.
La presenza di un dispositivo di intelligenza artificiale nella storia ha permesso, tra le altre cose, di fare un lavoro raffinato sulla musica, che riesce contemporaneamente a essere diegetica ed extradiegetica. Ad Able viene chiesto di mettere una musica “depressiva” e quella diventa il commento sonoro di una scena drammatica…
Sono molto felice che l’abbia notato. Ormai la musica la ascoltiamo dai nostri cellulari, perciò la musica viene da Able, ma quando poi i ragazzi tornano al contatto con la realtà, la musica diventa diegetica, altra, più umana. Anche con la musica ho voluto giocare sul contrasto tra virtuale e reale: l’intelligenza artificiale nel film mette e toglie la musica quando serve all’autore o quando serve al personaggio in scena.
Nel film si parlano tre lingue – italiano, inglese e francese – perché questa scelta?
Perché gli adolescenti della Generazione Z switchano continuamente tra una lingua e l’altra senza problemi, tutti parlano inglese. Era un altro modo per mettere in scena realisticamente quella generazione. Per loro la lingua non è più una barriera, così come non ci sono barriere tra reale e virtuale.
È venuta prima la scelta dell’attrice Souad Arsane o del personaggio francese?
L’ho conosciuta per caso a Cannes e mi ha colpito tantissimo nel film e come persona: era misteriosa, non parlava mai… così l’ho voluta come protagonista del mio primo lungometraggio. In sceneggiatura inizialmente c’era un ragazzo sovrappeso e bullizzato, ma quando ho incontrato Souad ho capito che doveva essere lei la protagonista e gli sceneggiatori hanno riscritto il personaggio su di lei.
Non giudica i ragazzi della generazione Z, ma sicuramente mette in allarme sulla pericolosità della tecnologia, se usata “senza filtri”.
Sì, volevo dire che la tecnologia è nostra amica, ma l’abbiamo resa cattiva come noi. Quando autorizzi un sito a fare delle cose, stai autorizzando la tecnologia a metterti nei casini, ecco: dovremmo stare attenti a far sì che la tecnologia non rifletta i nostri lati peggiori.
Sta già lavorando al suo secondo film?
Sì, e sarà più fuori di testa di questo. Si intitolerà L’universo è paese e sarà un dramedy sul non arrendersi mai in cui ci sono di mezzo anche gli alieni. Ho sperimentato con i cortometraggi, ho sperimentato ancor di più con la mia opera prima e continuerò a sperimentare facendo un cinema mio, in cui credo. Non voglio scendere a patti con un mercato che non c’è o, se c’è, è schizofrenico.
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