CANNES – Colline morbide e smeraldo disegnano il panorama sotto un cielo che sfuma tra cipria e celeste: una mamma seduta nell’erba, la sua bimba tra le gambe. Una stella fende la volta sopra le teste. Stacco.
Rohrwacher (Lucia) e Germano (Arturo), geometra lei, operaio specializzato lui, coppia sull’orlo della separazione, discutono sulle differenze tra maschio e femmina, un ping pong di grandi banali verità e qualche punta di accorata ironia: Rosa (la figlia adolescente di lei) dorme. Stacco.
Troppa grazia si costruisce sul ritmo della normalità, con sporcature di nevrotico incalzare quotidiano: distese di grano ocra e verde acido, enormi fronde d’albero sotto cui rubare un po’ d’ombra, fanno da contrasto a tutto questo per la pace che evocano, anche e soprattutto visiva, pittorica.
Lucia fa rilievi catastali sullo sfondo di questa “tela” campestre, che nulla ha da invidiare a certe vedute agresti della pittura classica, quando improvvisamente irrompe “una visione”. Una donna dagli occhi blu, velata di blu, accovacciata sul campo di grano seccato dal sole, lì a pochi metri da lei, e dal suo strumento di rilevazione: solo Lucia la vede, solo lei. Poi “la visione” torna, nella notte, in piedi in mezzo alla strada sterrata che la geometra percorre con il suo fuoristrada: la donna per la prima volta le parla. “Tu sai chi sono, la madre di Dio”. Perplessità di Lucia: l’altra scompare. Di nuovo appare in cucina, luogo in cui la Madonna (Hadas Yaron) le chiede di far costruire una chiesa, là dove le era apparsa la prima volta. “Il senso del magico – ha dichiarato il regista – volevo fosse mescolato al reale. Non pensavo al realismo magico sudamericano, ma se si osserva la realtà c’è sempre qualcosa che non torna… È stato interessante ‘vedere’ questa Lucia, l’ho vista davvero nel reparto televisori di un centro commerciale: ho sentito un’intimità con lei, un carattere non troppo risolto, che avrebbe detto di certo una parola di troppo, idea che mi faceva divertire; alla vista di una ragazza col velo blu in testa, le ha detto: ‘vai dagli uomini’ e quella ha risposto ‘vacci tu’. Lì ho riso e da una risata è partito tutto, tra presente e mistero, annullando ogni retorica: era già azione, in cui precipitavo dentro Lucia e nei suoi misteri. È l’infanzia arrabbiata che emerge nel film, perché la vita di lei era fin lì andata diversamente da come avrebbe dovuto. Non ho attinto all’iconografia religiosa popolare, perché sarebbe stato depistante, ma mi sono posto molte domande sul look della Madonna, bastava pochissimo per essere ridicolo o stonato, c’è stato un momento in cui sarebbe potuta essere pop, da Mantegna alle scarpe da tennis insomma. Siccome però si parlava dell’infanzia, mi sono ricordato anche della mia, e così ho pensato ad essere vicino alla semplicità estetica, e in questo lo sguardo di Maria era la cosa più difficile da rendere, perché doveva essere come un complesso monologo muto che pilota e possiede Lucia”.
Una spiritualità di cui, a suo modo, il cinema si fa traghettatore, come commentato anche da monsignor Davide Milani, presidente Fondazione Ente dello Spettacolo: “Quando il film lavora sul sacro, con lo scopo di esplorare, la relazione tra uomo e spirito va oltre il fenomeno dell’intrattenimento e diventa un fatto fondamentale per la società”.
La pazzia? Un’allucinazione? È su questo concetto che si consuma il film e in particolare una delle scene più concrete, surreali, e intense dal punto di vista attoriale del film, quella del confronto verbale e fisico tra le due figure femminili – Lucia e la Madonna, non un’eterea donnina luminosa, ma una carnale fanciulla dagli occhi cobalto e dal piglio deciso. Madonna, che come Hadas ha detto: “Per me era una ‘voce’ dentro Lucia, se non Lucia stessa. Mi è piaciuto tanto il personaggio perché non le permette di scappare. Lucia, sempre, prova a non affrontare il proprio sentire e la Madonna ha una buona intenzione: Lucia dovrà perdersi per poi vincere. Il mio rapporto con la Madonna cristiana? Io sono cresciuta con altre storie, una cosa positiva perché non mi ha influenzata per il personaggio: mi sono approcciata ‘in pace’; per il ruolo serviva capire Lucia: Gianni e io abbiamo molto parlato di lei, così abbiamo capito quale fosse la missione della mia Madonna”. La scena in questione, quella in cui Lucia e Maria si prendono a botte, si costruisce dietro la facciata di vetro di un salone che guarda su un giardino: lì, dove sono riunite le persone coinvolte nel grandioso progetto architettonico per cui Lucia si occupa dei rilievi sui terreni. L’archistar del progetto (Thomas Trabacchi), il costruttore (Giuseppe Battiston) e il resto del gruppo, che dal loro punto di vista esterno assistono così a questa “coreografia in (apparente) assolo” di Lucia, che solo lei vede e si scontra con la Madonna; una sequenza dalla doppia visione, soggettiva ed esterna, gioco che fa immergere e osservare con distacco al contempo; un cruciverba visivo e concettuale, oltre che di toni: dramma e commedia, proponendo una Rohrwacher staccata da ruoli consueti, che lei stessa ha commentato dicendo: “ringrazio Gianni che ha messo in luce i miei aspetti comici, mentre di solito vengo identificata con profili pesanti, che io non mi sento. Amo molto i film di Zanasi e quando mi ha contattata mi aspettavo qualcosa che mi avrebbe stupita, poi è arrivato con questa idea e mi ha proprio spiazzata: idea folle, spericolata, coraggiosissima. Arrivare a fare a botte con la Madonna ha fatto parte di una morale complessa e profonda, c’è stata una grande compatibilità tra Gianni me e Hadas, anche se è stata una scena difficile, le botte erano vere, ma anche un gioco con l’immaginazione, per gli effetti speciali”. Ha continuato Zanasi, autore di film come La felicità è un sistema complesso e Non pensarci, dicendo: “Ci tenevo all’esplodere delle contraddizioni dentro Lucia, a mettere in atto la sua scissione schizofrenica, che per motivi di sopravvivenza aveva tradito. Il suo lavoro ha fatto scattare questo incontro-scontro e ci tenevo che, senza aloni, la Madonna avesse un corpo: tutto il film è come una soggettiva dell’interiorità di Lucia. Abbiamo ‘suonato insieme’ con Alba, lei ha dentro questo aspetto ironico: è un film libero, anche di ridere senza sembrare futile. Gli attori per me sono coautori, non tutto è scritto. Credo loro servano a scrivere, e hanno tutti portato un apporto preziosissimo”.
Un film dalla trama originale, in cui la protagonista Alba Rohrwacher si cuce addosso il personaggio, al limite tra nevrosi, fragilità e ironia, dove la figura mariana, presentata nella sua massima umanità possibile, ma nel rispetto della sua prassi spirituale, è la garante della continuità dell’armonia e della simbiosi dell’uomo con la propria essenza prima, la Natura, chiesa, casa dell’essere umano. Questo concetto raggiunge il suo culmine nella sequenza finale, che ancora ricorre alla potenza visiva naturale del paesaggio, che qui si mostra scendendo nel ventre della madre Terra: una grotta sotterranea di suggestiva bellezza, dove Lucia – stretta alla mano della figlia – passeggia con lei sulle note dei Radiohead che, come una preghiera, cantano I promise. “Penso ci sia la sensazione frustrata di un presente arrogantemente oppressivo – ha affermato Zanasi – che vorrebbe a tutti i costi dare delle risposte con un tono sinistro, in cui è stato esiliato il sentimento del mistero. Questa è ricchezza di ciascuno, quella per cui la Madonna compare arrabbiata, una rabbia che serve a ‘richiamare’ Lucia”, richiamarla alla terra e alla natura, quella dell’acqua in particolare che, in tutta la sua simbologia, invade, cade, salta, riempie tutte le strade. L’acqua citata, gridata, evocata da Lucia come elemento “percepito” in quel terreno destinato ad essere fondamenta naturale di un modernissimo eco-mostro, corpo artificiale che sembra chiamare a sé il tema ecologico: “che c’è – conferma il regista, ma più centrale rimane il tema della perdita delle cose più profonde di Lucia, tra cui la connessione con la sua terra: persa quella, perso tutto, e per questo è una lotta che non si può perdere”.
Gianni Zanasi con Troppa grazia torna alla Quinzaine des REalisateurs, dove aveva debuttato nel 1995 con Nella mischia: il film è prodotto da Pupkin Production e Rai Cinema, distribuito da Bim Distribution.
Nel team dei selezionatori troviamo l'italiano Paolo Bertolin, già attivo come consulente della Mostra di Venezia, insieme a Anne Delseth, Claire Diao, Valentina Novati e Morgan Pokée.
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