Tre anni di riprese in attesa del… Primo soffio di vento. E’ un cinema fuori dal tempo, ma fatto di tempo – delicate scansioni del giorno e dell’anno, sospensioni meditative – quello di Franco Piavoli. Che torna a Locarno, dove era stato con Nostos, in concorso.
Figlio del medico condotto di Pozzolengo, in quella zona al confine tra Lombardia, Veneto ed Emilia carica di storia italiana, nato nel ’33, è tra gli autori meno prolifici del nostro cinema (quattro lungometraggi in oltre vent’anni) ma con un record di tenitura (Il pianeta azzurro è ancora su all’Azzurro Scipioni di Silvano Agosti).
Laura Cafiero, sua produttrice da Nostos in avanti, racconta il suo modo di lavorare unico al mondo: “E’ impossibile fare un preventivo, devi soprattutto mandargli abbastanza metri di pellicola”. La sceneggiatura si riduce a poche paginette di descrizioni senza dialoghi, eppure il Ministero gli ha assegnato un fondo di garanzia. “E la Rai ha accettato di rinviare la data di consegna piü volte, perché per lui è difficile mettere la parola fine”.
14 ore di girato, nella sua casa di campagna, sul Mincio o alla stazione, diventano 89 minuti densissimi. Il miliardo e mezzo l’ha speso soprattutto per i diritti dei brani musicali (esosi gli eredi di Ravel, ma anche Poulenc, Satie e Fauré non scherzano): dalle collaborazioni familiari (la moglie Neria Poli, il figlio Mario) al cast di non attori in cui spicca la Mariella Fabbris del torinese Teatro Settimo tutti lo affiancano per fede.
Accettando tempi lunghi e silenzi. Le pochissime parole, che danno anche il titolo, sono prese a prestito dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, quando descrive la folgorazione dell’incontro tra Medea e Giasone come immagine “vegetale” di ogni innamoramento, querce radicate nel suolo le cui fronde sono scosse dalla brezza improvvisa di un incontro.
Piavoli, che non ha voluto la neve artificiale in Nostos, accetta oggi l’avid che alterna alla classica moviola casalinga, perché “hanno diverse scansioni liriche”. Non esclude di arrivare un giorno a una sceneggiatura: sta pensando alla passeggiata di un gruppo di amici dal Mincio al Po e fino alla foce. “Uno solo arriva a destinazione, gli altri spariscono o muoiono o se ne vanno. Forse li farò conversare tra loro”.
Ma è la solitudine il suo chiodo fisso. E la genetica. “Sono un darwiniano, convinto della comune origine di uomini, animali, vegetali e persino minerali. Nelle pietre è presente un gene della vista. Eppure ogni individuo è irripetibile”. Nel film un accenno di critica sociale, con quei lavoratori africani che non santificano la domenica. “Non volevo fare polemiche violente, ma inserire uno spazio di autocoscienza e autocritica verso il mio stesso privilegio. Il Nordest è come la Louisiana del secolo scorso. I Veneti erano poveri, adesso, come nuovi ricchi, dimenticano il passato di emigrazione e sacrifici, e fanno i prepotenti verso il terzo mondo che ha sostituito il terzo stato. Ma il timore di perdere i privilegi c’è anche in me, come mostro nel sogno in cui i nigeriani entrano in biblioteca e si impadroniscono, metaforicamente, dell’intelligenza”.
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