Il 1° novembre alle 21.15, in concomitanza con il periodo di Halloween, arriva su Sky Cinema e sulla piattaforma on demand NOW il thriller drammatico Ai confini del male, diretto da Vincenzo Alfieri e prodotto da Fulvio e Federica Lucisano per IIF insieme a Vision Distribution.
Il film, interpretato da Edoardo Pesce e Massimo Popolizio, è liberamente ispirato al romanzo omonimo di Giorgio Glaviano (Marsilio) e sceneggiato dal regista e dallo scrittore insieme a Fabrizio Bettelli. Nel cast anche Chiara Bassermann, Robarta Caronia, Luka Zunic e Nicola Rignanese. In uno sperduto paese ai limiti di un bosco, durante un rave, scompaiono due giovani. A indagare ci sono i carabinieri Meda e Rio, il primo uomo sconfitto dalla vita, il secondo capitano inflessibile e rigoroso. Si teme che la sparizione abbia a che fare con un maniaco riemerso dal passato. Ma stavolta il mostro ha rapito la persona sbagliata.
Le tinte sono fosche, le immagini macabre, oscure, dure. Il taglio maturo e internazionale. Le location sono laziali: il Tevere, l’Aniene, il Lago di Albano e Castel Gandolfo. “Il libro si ambientava in Toscana – commenta il regista – cosa che mi piaceva perché mi ricordava la Louisiana di True Detective, ma il Covid non ci ha permesso spostamenti, così abbiamo creato un ‘non luogo’ che facesse sentire lo spettatore nel mezzo delle notizie che di solito si sentono in tv. Laghi, boschi, vetri, cani”.
“Il romanzo – dice il regista – aveva il personaggio di Meda, così al confine tra il bene e il male, e mi ha molto colpito. Mi sono chiesto cosa succedesse creando una frattura in un personaggio rigido e creandogli una frattura, scomponendolo. Nel libro Rio era un personaggio appena accennato, qui gli abbiamo dato spazio proprio per fargli da contraltare. Tutti i personaggi non sono quello che sembrano e abbiamo lavorato con acqua, specchi e vetri, per concettualizzare il tema del riflesso. Sia Pesce che Popolizio hanno voci importanti, baritonali, che vengono dal profondo. Il personaggio di Pesce è l’unico che agisce senza aver nulla da perdere. All’inizio sembra un personaggio negativo ma poi scopriamo le fragilità che lo hanno reso così. Popolizio sembra integro, sembra non tradire mai i valori dell’arma ma viene messo di fronte a una scelta estrema. Il bene e il male sono concetti astratti, non sempre si possono delineare facilmente. Io vengo da una famiglia che lavora in parte nell’arma. Quando parli con loro hanno una visione disfattista, vedono la morte, il sangue e persone che passano il confine ogni giorno. Forse nel mondo reale un carabiniere non risolve mai un conflitto. Il film non supera i confini del male, spero che resti una domanda, che le persone che lo guardano si chiedano se quello che vedono sia giusto o sbagliato. Il ritmo del film è specifico, alterna momenti veloci ad altri più seduti, lo scossone arriva con i titoli di testa, come se fossero un pugno, rapidi, con la musica techno. I Lucisano hanno prodotto Terrore dallo spazio, da cui Ridley Scott ha tratto Alien, il cinema di genere in Italia lo hanno fatto loro. Loro avevano i diritti del libro e volevano farci una serie, ma piuttosto alla fine Federica mi ha proposto il film”. “Il concept – dice Federica Lucisano – era originale, il nostro team editoriale ha reputato il libro interessante e ci siamo trovati d’accordo. Volevamo fare una serie ma abbiamo capito che era nelle corde di Vincenzo, era la sua tazza di tè. Lui se ne è innamorato e abbiamo ragionato su come comporre il cast. L’accoppiata Pesce/Popolizio è stata felice. Insieme hanno fatto un lavoro fantastico”. Non è difficile cogliere nel film riferimento a serie già conosciute e blasonate, come True Detective: “Il confronto è con un oceano di offerta – dice il regista – abbiamo Millennium, Il braccio violento della legge, Prisoners di Villeneuve, ho tanti riferimenti. Ci sono chiaramente anche stereotipi, ma a conti fatti usiamo l’escamotage del genere per parlare di rapporti familiari. Da Platone in poi abbiamo raccontato tutto, la sfida di un autore è quella di trovare il modo di raccontare qualcosa di già raccontato. Anche il colpo di scena finale non è quello che ci si poteva aspettare. I due protagonisti sono uno il riflesso dell’altro, e sicuramente True Detective mi ha influenzato”.
“Basta fare il cattivo – dice Pesce – ormai mi sento come Jessica Rabbit. Scherzi a parte, indosso la divisa solo in una scena in flashback, che rappresenta la rottura tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ del personaggio, che ruota attorno a un episodio tragico. La divisa ormai ce l’ha dentro. Dopo Dogman, faccio un altro ‘cane pazzo’, ma il personaggio in sceneggiatura si chiamava ‘il maniaco’. Abbiamo cambiato il nome in corsa. Nella scena di lotta con Popolizio mi sono accorto della sua forza, era una coreografia, abbiamo lavorato con degli stunt-men che ci spiegavano come fare. Lì ero io, in altre scene no perché ne ho fatta una sola e mi sono rotto un dito. Era come fare wrestling”.
Popolizio dichiara, in collegamento: “Recitare con la divisa è difficile, bisogna salvarsi dagli stereotipi. Io all’inizio del film faccio cose che nessuno capisce. Mentire, usare una doppia faccia, costa tanto a un uomo che ha un’etica. E’ stato un personaggio difficile ma Vincenzo mi ha aiutato tanto, ci siamo sempre confrontati su tutto. Paga lo scotto di confondere la sua vita privata con il lavoro, si capisce subito che i suoi legami sono rovinati, ma il suo grande legame è quello con il figlio. Cosa si è disposti a fare per salvare il proprio figlio? Siamo sicuri di conoscere nostro figlio? Proprio il non conoscere bene suo figlio lo porta a fare quello che fa. C’è una frattura, una crepa che il personaggio cerca sempre di incollare. La divisa è la sua protezione. Con Pesce abbiamo avuto un rapporto anche fisico, non teorico. E’ una presenza importante la sua. Ho tentato di rapportarmi a Edoardo un po’ sottotono. La mia voce è sempre un po’ minore rispetto alla sua, tendevo a essere troppo presente e ho acquistato terreno facendo cose sotto traccia, anche grazie allo schermo della divisa. Poi arriva l’ammirazione, sia per il personaggio che per l’attore, siamo stati uniti e ci siamo aiutati”.
“Il personaggio – spiega Bassermann – era in linea con il concetto di ‘confine’. Bisognava lavorarci senza dare un giudizio. Si trova a compiere atti come ricattare o prostituirsi, che sembrano terrificanti. Ma nelle sue condizioni, cosa farebbe un qualsiasi essere umano? Possiamo giudicarla? Questo è il nodo attorno a cui si arrotolano tutti i personaggi del film. Quando ti toccano gli affetti, i figli, come puoi comportarti? Il mio personaggio non aveva niente da perdere, a differenza di me, che ho tanti amici e affetti, quindi ho dovuto lavorare sul non avere nulla, pensando a cosa può provare un’immigrata che non ha nulla in un paese straniero che la bistratta al punto di doversi far giustizia da sola”.
“Nasco attore – dice ancora Alfieri sulla sua carriera – e fatico a definirmi un regista. Un regista si definisce al terzo film. I figli non ce li ho ma durante il Covid ho visto un sacco di film e tornavo sempre sugli stessi, Prisoners prima di tutti. Il tema della famiglia mi ossessiona. Tutti i corti che ho fatto erano thriller. Mi era rimasto questo pallino che avevo inserito anche ne Gli uomini d’oro, ambivo ad atmosfere più cupe, sapevo che avrei fatto un thriller prima o poi. Devo fare le cose con amore e con il tempo di riflettere”.
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