A Prairie Home Companion

Sta per compiere 81 anni, il 20 febbraio, e lo aspetta al varco anche uno strameritato Oscar alla carriera. Eppure a Berlino, Bob Altman è venuto non da maestro consacrato ma come un qualsiasi regista, con un film in concorso che rischia anche di vincere. Un film corale come sa far lui, malinconico e al tempo stesso gioioso, musicale e carico di nostalgia ma senza mai essere patetico. Una riflessione in punta di piedi sulla morte come evento naturale: perché la morte di un vecchio dice il film – non è un dramma. Lo hanno accolto con applausi calorosi perché A Prairie Home Companion è un film veramente godibile, e non solo per chi ama la musica country.

Il titolo ricalca pari pari quello di un programma radiofonico trentennale. Nato nel ’74 oggi è ascoltato da 35 milioni di persone in tutto il mondo, 4 milioni solo negli States. È un programma che, in epoca di globalizzazione e di fast food, è rimasto per trent’anni sempre uguale a se stesso grazie alla verve, all’umorismo e alla dolcezza del padrone di casa, il Garrison Keillor che è anche autore della sceneggiatura e interprete della pellicola accanto a un’autentica parata di star che cantano (benissimo) con le loro voci. Meryl Streep e Lily Tomlin sono due sorelle dalla lacrima facile che formano il duo delle Johnson Sisters, John C. Reilly e Woody Harrelson due sgualciti cowboy dalla battuta pronta, la giovane Lindsay Lohan mostra il timido e spavaldo affacciarsi delle nuove generazioni sul palcoscenico della vita; mentre Kevin Kline è un irresistibile addetto alla sicurezza che sciommiotta le consuetudini dell’hard boiled e Tommy Lee Jones un cinico emissario dell’immobiliare che ha acquistato il teatro dove si registra l’ultima puntata del programma (è il teatro di St. Paul, Minnesota, dedicato a Francis Scott Fitzgerald). Mentre si intrecciano ricordi e rimpianti, nel backstage si aggira Virginia Madsen, una bellezza racchiusa in un candido trench che si rivelerà ben presto un angelo della morte dai modi soavi. Insomma, è quasi un lascito spirituale per lo straordinario autore di Nashville e MASH, che non si è lasciato sfuggire l’occasione di questo film su commissione (come il precedente The Company) ma non per questo meno sentito nonostante gli assicuratori gli abbiano voluto affiancare sul set un regista supplente, Paul Thomas Anderson, presenza “utile e discreta” a scanso di malori e incidenti di percorso. Sull’Oscar, che arriva alla carriera mentre le numerose candidature non si sono mai realizzate, ha solo parole gentili: “Ne sono felice, non potrei desiderare di meglio”. Mentre sulla qualità apparentemente poco politica di questa storia che attinge al cuore dell’America profonda, argomenta pacatamente: “Quest’anno il campione dell’impegno è stato George Clooney, ma io credo che ogni opera d’arte sia politica perché non può non riflettere quello che ci circonda e che ci sta accandendo, un artista non può tirarsi indietro dalla responsabilità civile”.