Pochi passi per raggiungere la basilica di Santa Maria Maggiore, altrettanto pochi per quella di San Giovanni, non moltissimi di più per la Stazione Termini. Una grande piazza, nel cui punto più centrale vive un giardino pubblico, tra portici di perimetro e una porta esoterica misteriosa. Uno spazio urbano nel centro della Capitale italiana, uno spazio che, come molti nel mondo, ha una personalità meticcia: in questo luogo di contaminazione tra la Storia antica, quella religiosa e l’esotismo importato, il regista Abel Ferrara ha deciso di ambientare il suo documentario, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2017 e ora in uscita il 20 settembre con Mariposa Cinematografica.
Ferrara aveva già scelto l’Italia e il capoluogo partenopeo per il suo documentario appena precedente: Napoli Napoli Napoli (2009) è infatti il lavoro nato intorno alla casa circondariale di Pozzuoli. ConPiazza Vittorio, altro titolo che come nel precedente progetto non lascia spazio ad interpretazioni, il regista nato nel Bronx sceglie ancora uno specifico spaccato urbano, costellato di variegata umanità, per raccontare un pezzetto della Capitale; non un luogo ai margini geografici ma nel pieno centro della città, che le persone, e le personalità, e la loro camaleontica integrazione, hanno reso nel tempo uno spazio addirittura degno di essere protagonista del cinema, nel racconto di un maestro.
Tra le voci di immigrati senza permesso di soggiorno e quelle di sanguigne vecchiette romane incattivite contro il degrado, anche quelle di Willem Dafoe (Coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia) e Matteo Garrone, anche loro “inquilini” di Piazza Vittorio. “Sono nato in un quartiere borghese e poi sono venuto a vivere a Piazza Vittorio nel 1999, perché avevo voglia di andare a vivere all’estero”, queste le parole con cui il regista romano rende calzante l’idea del luogo, che Dafoe racconta nel proprio rapporto tra popolarità e discrezione: “Il potere e l’identità che avrei normalmente ogni giorno a New York, non ce li ho qui… e questa è una cosa che accetto come una sfida, come una cosa che mi fa umile e mi fa crescere”.
Non solo immagini d’oggi per raccontare Piazza Vittorio, ma anche sequenze d’epoca, in bianco e nero, direttamente dall’Archivio di Istituto Luce Cinecittà, per narrare quel luogo com’era, in un continuum temporale tra passato e presente, e viceversa. Il linguaggio visivo è prettamente quello della camera a mano, che ben concorre a raccontare il collage umano del luogo prescelto: un pot-pourri antropologico, che amalgama razze, anagrafi, psicologie umane, bancarelle con merce a poco prezzo e giovani suore approdate nel tempio della cristianità, musulmani in preghiera e rappresentanti di CasaPound: ciascuna è una “voce” personalissima, ma tutte insieme concorrono, consapevoli o non, a definire il luogo, quel luogo non solo urbano, ma soprattutto raccontabile per le persone che lo fanno respirare, rendendolo un’interessante ambiente di incontro/scontro sociale e sociologico.
“Roma non è Italia, Roma è il Mondo”, dice un macellaio italo-egiziano, dagli anni ’80 a Piazza Vittorio, ben sintetizzando così quel lembo di terra urbana e umana.
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